Matthew Dear
Beams
Dopo Black City -cifra stilistica e apice di una carriera- Matthew Dear non ha esaurito il potenziale creativo e comunicativo. Anzi, la veste sempre più rifinita di crooner al neon trova con Beams un netto suggello. Se gli espedienti, due anni fa, erano quelli di Remain in Light, ora il linguaggio si autonomizza, facendo leva su una personalità che impedisce di considerare questo ultimo lavoro come un semplice gemello di Black City. Certo, l'estetica è quella, ormai del tutto riconoscibile, ma l'effetto del già sentito è decisamente scongiurato.
In tutto ciò l'elettronica è più una forma mentis, un approccio che si palesa nella definizione delle textures, nella cura dei suoni, negli incastri tra accumuli di layers. Sono così tante le sfumature che contaminano la musica di Beams che limitarsi a ricondurre tutto alla vena house degli esordi sarebbe fuorviante. Difficile infatti mettere in secondo piano il perenne groove funky-soul mutuato dagli esperimenti di Eno e Byrne, parimenti difficile considerare semplici screziature le componenti wave (Earthforms suona come dei Morphine ad un rave), oppure ignorare i venti balearic che soffiano qua e là (si senta a proposito l'aura dance della prima Her Fantasy, sorta di connubio tra il passato techno-house e gli stimoli offerti da un John Talabot). Allo stesso modo la vena cantautorale sempre più spiccata non è più soltanto espediente riempitivo, ma costituisce (cosa che -invero- succedeva già nel 2010) un vero e proprio pilastro portante della proposta deariana. C'è, tirando le somme, una componente ipnotica nel processo compositivo che funge da base per la creazione dei brani: loops ossessivi che invece di implodere danno il via a forze centrifughe generatrici di sviluppi imprevedibili. Come in Up & Out, dove la linea di basso e i vari sample si attorcigliano attorno all'evoluzione delle liriche in un continuo accumulo di groove, o nella macina industrial di Overtime, lentamente polverizzata in una nube sintetica, o ancora nel rifinitissimo spettro sonoro di Get the Rhyme Right, legatissima alla storia micro-house del producer texano (sono qui le piccole -ma indispensabili- variazioni ad infittire e arricchire le textures), o infine nella splendida Ahead of Myself, immersa nella glassa sensuale e profumata dei synth, per uno degli apici indiscussi del disco.
Le strade di Matthew Dear non sembrano proprio essere giunte ad un vicolo cieco, anzi: superata l'oscurità e gli orizzonti opprimenti di Black City, ecco la luce. Le vedute sono ampie, forse dispensatrici di ulteriori stimoli. Chi vivrà vedrà, in ogni caso Beams è un ottimo segnale di presenza e vitalità.
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