R Recensione

7,5/10

Odawas

The Blue Depths

Originari di Bloomington (Indiana), ora domiciliati a Chicago, Mike Tapscott e Isaac Edwards sono finalmente approdati alla loro isola (in)felice. È stato persino più semplice del previsto: bastava disintossicarsi dalle tossine psych dei precedenti “Aether Eater” e “The Raven And The White Night” (rispettivamente 2005 e 2007, entrambi Jagjaguwar), fare fagotto e perdersi. Era ora, consentitemelo. Non che le due operine succitate fossero così disprezzabili, tutt’altro; adesso però è arrivata la musica. Facciamo così: immaginatevi il Neil Young di “On A Beach” a fianco di Angelo Badalamenti, o una session fra Vangelis e i Pet Shop Boys (so che sembra impossibile, ma prestate orecchio a “Swan Song Of The Humpback Angler” o “Harmless Lover’s Discourse”, poi ne riparliamo) e avrete un’ancorché vaga idea della morbidezza pellegrina, dreamy e painful a un tempo, di “The Blue Depths”.

Album che qualcuno ha contrapposto, con felice capacità d’osservazione, a “Saturdays=Youth” degli M83, in ragione della diversa funzione svolta dalla comune matrice dream-pop: là simulacro electro-shoegaze, formulario con cui evocare candidi ricordi di gioventù; qui complemento di infinita tristezza folkie, prosastico fondale per le introversioni dell’età matura. Ed è per l’appunto il suono della resa, appallottolato in un cuscino troppo esile per poterci davvero posare la testa e dormire, a costituire il nocciolo di “The Blue Depths”. Un suono fatto di pochi gesti, tutti indispensabili. Epico come può esserlo l’armonica da cowboy che in “Moonlight/Twilight” ulula alla luna, o la chitarra elettrica “devastata” in coda a quel macigno emotivo chiamato “Secrets Of The Fall”.

Ascoltare queste otto canzoni equivale a confrontarsi con un amalgama di concetti (musicali e non) di per sé tendenti alla reciproca esclusione: cantautorato acustico e synth-pop, densità dell’amalgama contro leggerezza del tocco, linguaggio arcaico opposto a feeling (post)moderno. Non è quindi un caso che i frutti forse più succosi del rinvigorito songwriting di Tapscott ballonzolino proprio ai due estremi del disco, quasi a voler ricalcare nella struttura il dualismo intestino dell’opera: il primo, l’iniziale “The Case Of The Great Irish Elk”, è irrinunciabile impasto elettro-sentimentale in cui galleggiano ricordi di American Music Club e Red House Painters (anche la fragile, bellissima voce di Tapscott pare una via di mezzo fra quella del “loner” e l’ugola di Mark Kozelek); l’altro, la conclusiva “Boy In The Yard”, si apre a ventaglio fra solipsismi pianistici, synth trottolosi e influssi world, collassando di una spessa e brumosa poetica dell’abbandono. Non per essere veniale, ma se riuscite a non commuovervi quando le due voci intonano il salmodico “We all must die/ for anyone to survive/ but that boy in the yard…” siete probabilmente morti, giacchè il magone sprigionato è indicibile; magone misto a felicità, per essere precisi: la felicità di non essere soli, o per lo meno di non essere gli unici a dover affrontare la solitudine (“I know I’m not alone/ I know that I’m not the only one”).

Nonostante qualche sbavatura e un’omogeneità a volte eccessiva, “The Blue Depths” resta, nel suo complesso, un grande album d’atmosfera, cadenzato al ritmo del cuore a riposo. Un gioiello sepolto sotto una spiaggia abbandonata, dove gli Odawas - ne siamo certi - sosteranno ancora a lungo. Ci sono ancora tante cose da vedere (e raccontare) in quella loro triste, felice isoletta. Un 7,5 meritatissimo.

V Voti

Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 13 voti.
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0,5
target 7/10
Cas 8/10
lev 6/10
REBBY 8/10

C Commenti

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paolo gazzola (ha votato 8 questo disco) alle 10:03 del 19 giugno 2009 ha scritto:

Bel disco

Molto più sognante e sospeso del precedente Raven And The White Night che però, nel suo suonare "antico", mi era piaciuto di più. Pezzi come "Alleluia" e "The Ice" ne facevano a mio parere una delle uscite migliori del 2007. Comunque grandi, d'accordo sul 7.5, e grande Matteo che li recensisce.

target (ha votato 7 questo disco) alle 15:55 del 19 giugno 2009 ha scritto:

Ebbravo Los. Finalmente torniamo in sintonia. Mentre gli M83 mi erano passati via senza lasciare niente, questo Odawas dalle tinte più malinconiche e dagli occhieggiamenti folk, invece, lo trovo un bel disco. Le tastiere vintage alle volte sono fin quasi new romantic, anche causa qualche passaggio armonico arioso, ma l'insieme affascina eccome. Color seppia e sognante. Bellissimi gli interventi dell'armonica ("Moonlight/Twilight", "Harmless lovers' discourse"). I Pet Shop Boys li sento in alcuni accordi in minore, in un'aria introversa diffusa, in qualche base, non assolutamente nella voce, come ho letto da qualche parte, che nulla c'entra con la nasalità impettita di Tennant.

Roberto (ha votato 8 questo disco) alle 13:02 del 22 giugno 2009 ha scritto:

Accade poche volte di ascoltare spesso per intero un album. Ed associarlo a luoghi ben specifici dove quest' esperienza è stata vissuta: aeroporti, sale d'attesa. "The Blue Depths" è la colonna sonora ideale di coloro alle prese con il Tempo in cerca di una musica per dilatarlo. Con l' illusione di fermarlo

fabfabfab alle 18:21 del 30 giugno 2009 ha scritto:

Disco apprezzato subito e messo via troppo in fretta. Recupererò, grazie al solito superlativo Loson, che non solo mi toglie la polvere da questo disco ma me lo fa letteralmente brillare.

fabfabfab alle 18:21 del 30 giugno 2009 ha scritto:

Disco apprezzato subito e messo via troppo in fretta. Recupererò, grazie al solito superlativo Loson, che non solo mi toglie la polvere da questo disco ma me lo fa letteralmente brillare.

hiperwlt (ha votato 8 questo disco) alle 11:03 del 30 ottobre 2009 ha scritto:

bravo loson,

complimenti come al solito. un disco incantevole. scivola dolcemente in uno stato di quiete perfetta; tende la mano all'ascolatatore e lo accompagna verso una breve ma intensa cavalcata nostalgica in un non luogo già vissuto. una carezza continua.