V Video

R Recensione

5/10

Pet Shop Boys

Elysium

Se solo riuscissero a rinunciare a certe concessioni all'ottimismo facilone, i Pet Shop Boys potrebbero uscire con un disco della vecchiaia monumentale. E invece, come da titolo, cercano la pace dei sensi, mettendo in copertina le foto delle vacanze. È un peccato, perché di pezzi disturbati e sottilmente urtanti Tennant e Lowe continuano a scriverne, ed è solo lì, ormai, che convincono. Sicché, nonostante “Elysium” sia con pochi dubbi il peggior disco nella carriera dei Pet Shop Boys, sommo rispetto va tributato al duo inglese, ancora capace di mettere i brividi del pop quando cala i propri assi.

Prodotto a Los Angeles con Andrew Dawson (è il primo disco totalmente ‘americano’ dei PSB), “Elysium” conferma l’impressione di una band ormai esclusa dalle zone di sperimentazione del synth-pop. Lo spettro sonoro, riallacciandosi ai precedenti “Fundamental” e “Yes”, è quello di un pop anonimo e modellato su un’aurea mediocritas che scivola via, soprattutto dove si vogliono dare vibrazioni positive ed euforia a buon mercato:  da “Winner”, banale inno olimpico lanciato per sfruttare la scia di Londra 2012, a “Breathing Space” (bleah), da “Hold On” (orrore in stile musical) a “Give it a Go”, si stagna in una produzione insulsa, senza che Lowe ricami nessun guizzo, e senza che Tennant trovi melodie efficaci. Non migliorano le cose pezzi più ‘extravaganti’ come “Ego Music” (tra i brani peggiori della loro carriera) o “Everything Means Something”, dove il registro più cupo e i synth vagamente graffiati non riscattano una scrittura scialba.

Per fare la differenza i Pet Shop Boys devono ricorrere alle loro armi storiche: l’autoironia e il talento nel vestire l’inquietudine di melodie a presa immediata (‘pop art’ si chiamava un loro best of). La prima trionfa nello sfottò di “Your Early Stuff”, deliziosa invettiva contro i fan che dichiarano la propria passione solo per il vecchio materiale («You’ve been around but you don’t look too rough / and I still quite like some of your early stuff / It’s bad in a good way if you know what I mean / the sound of those old machines...»). Dopo “Yesterday, When I Was Mad”, dove Tennant si scagliava contro l’esaltazione acritica dei fan nei tempi d’oro, qua si registra con amara lucidità la reazione degli ascoltatori nella fase discendente. Piccola pasquinata a segno. Soprattutto se il pezzo sfocia nell’apoteosi ’80 di “Face Like That”. Per dire: volete il vecchio synth-pop? Eccolo. E non è male, in effetti, nella sua resa tra “Actually” e New Order.

Ma è l’inquietudine vestita di melodia a salvare il disco dal flop. Tremendamente PSB la truce teatralità in eccentrici accordi da melodramma di “Memory of the Future”, ancora molto ’80 (i petshopboysiani ricorderanno “What Keeps Mankind Alive”), mentre rimanda ai ’90 la soft-dance di “Leaving” e “Requiem in Denim And Leopardskin”, i due apici del disco. Si pesca dal proprio repertorio, d’accordo: la prima sembra una “Before”-reloaded, mentre la seconda, nella sua giostra di lustrini ormai decadenti da end of the party, rinvia a certe b-sides dell’era-“Release”. Ma c’è gran classe, qua, nel cantare la fine di un amore e quella di un’intera carriera. E non è un caso che dove Tennant trovi la melodia, improvvisamente sembri affinarsi anche la produzione, elegante e rifinita, ben lontana dagli archi facili e dalle zeppe prefabbricate di gran parte del disco.

E allora si conferma un’impressione data anche dal precedente “Yes”: i Pet Shop Boys, già cantori delle malinconie e delle paranoie nascoste nell’era dell’ottimismo thatcheriano, tanto più danno il meglio ora, ai tempi della crisi e dell’anticamera della vecchiaia, quando si immergono nei propri fantasmi. Mette i brividi, a questo proposito, un pezzo come “Invisible”, ballata narcotica di disorientamento ben resa dagli slow motion cubisti del video. Tennant affronta il declino senza infingimenti («After being for so many years / the life and soul of the party / it's weird / I'm invisible»), si guarda scomparire in mezzo a chi prenderà il suo posto («Look at me / the absentee / disappearing finally / Goodbye»), si tormenta sull’età («Is it magic or the truth? / Strange psychology? / Or justified / by the end of youth?»), finendo su visioni di male irredimibile («It's a journey so they say / but in this desert I was only a hazy, lazy mirage») che, cullate e drogate dalla morfina dei synth, fanno persino paura.

È un addio? Beh, grazie.

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C Commenti

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Dr.Paul alle 14:52 del 4 settembre 2012 ha scritto:

deluso targ?

target, autore, alle 14:59 del 4 settembre 2012 ha scritto:

Beh, sì, anche se il trend ormai era in discesa da un po'. Certo, qui la parte centrale (6-7-8-9) sfiora l'imbarazzo. Loro hanno sempre mantenuto, pur rimanendo dentro i confini del pop, una loro schiva eccentricità. Ma ormai l'hanno persa. Solo barlumi.

target, autore, alle 15:25 del 14 marzo 2013 ha scritto:

Forse consapevoli del flop, i Pet Shop Boys cercano di correre ai ripari: disco nuovo (per una nuova etichetta, dopo 28 anni di Parlophone) già a giugno, ad appena 9 mesi da "Elysium". Si chiamerà "Electric".

tramblogy alle 19:06 del 14 marzo 2013 ha scritto:

che storia!!!