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R Recensione

6/10

Pet Shop Boys

Format

In tempi di ritorno al vinile, il concetto di b-side sta conoscendo una sorprendente riscoperta. E allora non è un caso che proprio ora cada questa raccolta delle b-sides 1996-2009 dei Pet Shop Boys, i quali storicamente hanno sempre pubblicato lati B di grande qualità, spesso all’altezza dei lati A contenuti negli studio-album. Lo dimostrava perfettamente “Alternative” (1995), la raccolta di b-sides uscite tra il 1984 e il 1994, dove trovavano spazio, accanto a curiose sperimentazioni che battevano territori leggermente laterali rispetto a quelli esplorati nei dischi ufficiali, pezzi pop eccellenti, alcuni dei quali oggi considerabili dei classici della loro discografia.

Il periodo ’84-’94, d’altronde, fu quello in cui i Pet Shop Boys raccolsero i maggiori successi commerciali e produssero le loro cose migliori. “Format”, riunendo il materiale ‘extravagante’ compreso tra “Bilingual” (1996) e “Yes” (2009), va a illuminare un arco di tempo meno dorato per il duo britannico, per quanto non privo di picchi e intuizioni felici, anche se ciò che in questi 38 pezzi si tocca con mano, soprattutto nel cd2, è il progressivo scivolamento di Tennat e Lowe al di fuori del quadro pop che conta. Quello in cui, nel decennio precedente, avevano svolto il ruolo di maestri.

Il primo cd contiene il materiale prodotto ai tempi di “Biligual” e “Nightlife”, due dischi dal colore quasi opposto e dalle diversissime tensioni musicali (musica latina vs. Faithless, in sintesi). L’influenza dei viaggi brasiliani di Chris e delle relazioni spagnole di Neil, in realtà, qua lascia tracce in pochi pezzi: essenzialmente nella versione alternativa di “Discoteca” e in quella ‘Miami Latino thing’ che è la splendida “The Boy Who Couldn’t Keep His Clothes On”, specchio della house metà anni ’90 (ci sono dietro Danny Tenaglia e Junior Vasquez) e piccolo trattato, apparentemente idiota, ma in realtà acutissimo, sui meccanismi psicologici che spingono certi esibizionisti ad andare in discoteca. Vera perla, e summa dell’understatement di Tennant, che a proposito di un pezzo così scatenato e luccicante confessò: «it’s actually a really sad song». Crying at the discoteque.

Riflessi nineties che mostrano ancora i Pet Shop Boys in piena sincronia coi loro tempi sono rintracciabili nell’elegia jungle di “Betrayed”, sorta di Everything But The Girl revisited, e l’auto-rifacimento per club di “In the Night”, con piano bounce e samples so mid-nineties. Poco altro, lì, di davvero interessante. “Hit And Miss” anticipa i tempi acustici di “Release”, sfoggiando le prime chitarre acustiche così distinguibili in un pezzo dei Pet Shop Boys, mentre appartiene alla petshopboysiana categoria delle ‘marching songs’ “Delusions of Grandeur”, in cui Tennant immagina di essere il papa sopra un rifacimento dance trascinante della Sonata al chiaro di Luna di Beethoven. Il resto, con l’eccezione del pop (in realtà un po’ sempliciotto, ma almeno catchy) di “The Ghost of Myself” e dell’introversione house di “Sexy Northerner”, è per lo più curioso documento (vd. il bolso ‘Pet Shop Boys get Prodigy’ di “Disco Potential”).

Nel secondo disco si coglie con una certa evidenza, invece, la perdita di originalità del duo, ormai non più all’avanguardia nell’esplorazione del pop, come evidenzia soprattutto il materiale prodotto durante le sessioni di “Fundamental” e “Yes”. Nei pochi episodi sperimentali, i Pets rifanno il verso a se stessi: “The Former Enfant Terrible” è una riproposizione impallidita della vecchia b-sideThe Sound of the Atom Splitting”; “Transparent”, con l’uso esasperato del vocoder, è una bruta copia di “One of the Crowd”, mentre “I Didn’t Get Where I Am Today” un bolso pop rock fuori tempo massimo. Altrove sono produzioni poco a fuoco e una scrittura un po’ stanca ad abbassare la qualità (“After the Event”, “Up and Down”, “The Resurrectionist”), mentre a elevarla sono per lo più vecchi pezzi scritti nei primi '80 e prodotti solo recentemente, dalla buia “Gin and Jag” (gli anni ’80 dell’emarginazione) alla classica ballad tennantianaFriendly Fire”, oppure il lounge di “Searching for the Face of Jesus” e “Between two Islands”, o i brani più incupiti, da “Girls Don’t Cry” a “Always” (che rimane ancora misterioso come sia potuta rimanere fuori da “Release”). L’autocelebrativa “We’re the Pet Shop Boys”, infine, nelle sue spire di synth buie e nella melodia ghignante, spiega quali siano state le peculiarità che rendono riconoscibile tra mille la loro 'pop art'.

A differenza di “Alternative”, spettacolare retrospettiva attraverso lo spioncino sul synth-pop ’80-’90 e su un intero universo musical-sociale, questa seconda incursione nel retrobottega del negozio di animali dice qualcosa (certo) sui Pet Shop Boys, ma poco su ciò che è successo attorno a loro. In due parole: per fan.

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