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R Recensione

5/10

Polinski

Labyrinths

Dal post-rock dei britannici 65dayofstatics emerge Polinski, uno pseudinimo sotto il quale si nascondono le divagazioni beat & noise di uno dei fondatori, Paul Wolinski. Attraverso il suo synth e i suoni da laptop il proggetto Polinski sembra liberarsi di ogni influenza rock inseguendo l’utopica necessità di mettere in musica il senso metafisico del mondo, di trarre una colonna sonora da quello spazio oltre il reale dove viaggia l’immaginazione con il supporto concreto della scienza. Grazie ad essa la fantasia si apre a una infinità di possibilità che realizzano le illusioni di un adolescente sognatore: proprio questo è il Paul Wolinski che si è seduto davanti ai suoi strumenti elettronici, un uomo tornato quindicenne per realizzare la sua immaginazione.

Come ha dichiarato lui stesso, “Labyrinths è un album che ho sognato ad occhi aperti di scrivere da quando a 15 anni ho imparato a programmare un Midi: molti beat, distorsioni e un pianoforte carico di melodie ballabili.” Labyrinths è un disco composto in viaggio, dove le atmosfere sonore si lasciano influenzare dagli ambienti che dagli occhi raggiungono la mente: l’area lounge di un aereoporto sospesa tra due spazi distanti chilometri come due diversi pianeti (“Like fireflies”) o la stanza di un albergo sconosciuto che assorbe nelle proprie pareti tutti i sogni di coloro che vi hanno dormito e che vi dormiranno (“Tangents”). Sono piccole esperienze di sci-fi, di fantascienza, spesso sottratte ai film degli anni ’70-’80 e riproposte sottoforma musicale al modo in cui le immaginerebbe un bambino degli anni Zero in possesso di una sterminata fantasia e di un synth. “1985-Quest” è questo: un ritorno al futuro, o più esattamente, un ritorno a quel futuro visto dal passato, quando lo sguardo innocente di un bambino mostrava le possibilità più infinite.

Lo sguardo di questo bambino riesce a vivere di una creatività che la tecnologia contemporanea gli ha negato, un’ingenuità nel sognare mondi e razze impossibili che si esprimono in musica, dove ogni battito elettronico può significare una parola aliena (“Kressyda”) che raggiunga le orecchie dell’ascoltatore. Questi riuscirà a comprendere un intero discorso, quello inciso dentro tutto il disco, se sarà capace di lasciare che la musica guidi il proprio corpo nella danza innocente del bambino che è stato e che può tornare ad essere ancora una volta.

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