Lambchop
Mr M
I dischi dei Lambchop hanno uno stile inconfondibile, come il profumo di una vecchia fiamma o l’aroma di un vino pregiato. Da vent’anni ci lavorano sopra come instancabili artigiani della canzone. Nel tempo lo hanno portato ad un tale livello di padronanza e di perfezione che il più è già fatto e non resta da aggiungere che qualche ritocco, un po’ di labor limae, una diversa sfumatura qua e là. Il problema con loro, sempre che di problema si possa parlare, è probabilmente insito in tanta bravura: ci hanno abituati così bene negli ultimi due decenni (specialmente nel primo) che noi critici (un po’ ingrati per deformazione) sappiamo già cosa aspettarci e sentiamo sempre puzza, pardon fragranza, di deja entendu. Quel loro country da camera avvolgente e raffinato, con le melodie torpide e mormorate e gli arrangiamenti orchestrali con la sordina. Quelle atmosfere soffuse e contemplative, in linea con uno sguardo malinconico, assorto e poetico rivolto agli angoli più riposti (e deserti) della provincia americana che si specchia nei testi di Kurt Wagner, leader e voce di un ensemble informale di ottimi musicisti che vanno e vengono da un disco all’altro.
Negli ultimi anni hanno accentuato la loro propensione per la pennellata lenta, lunga, leggera, appena intinta di colore e per una forma canzone dilatata e compassata, per larghi tratti strumentale, stile colonna sonora da cinema indipendente. E anche il nuovo “Mr. M” si muove con consumata eleganza su queste coordinate. Picking, piano, organo e archi, chitarre elettriche defilate per non dire assenti, ritmi arsi e scarni, lunghe parti d’atmosfera. Brani come “If Not I’ll Just Die”, “282” e “Buttons” riverberano di un pathos commosso e confidenziale, specialmente la prima così retrò, quasi un crooning senza coroner, fra la Hollywood classica e la Peguin Cafè Orchestra. La title-track e “Nice Without Mercy” hanno quell’andamento caliginoso e ciondolante che c’è subito familiare, fatto di brevi strofe quasi parlate e lunghe dissolvenze corali e strumentali (organo e archi). Completamente strumentali sono invece “Betty’s Ouverture” e soprattutto “Gar” con quella sua gradevole tonalità da lounge-soul anni 70 (Wagner è un grande ammiratore di gente come Marvin Gaye, Curtis Mayfield o Barry White). I richiami più esplicitamente alt-country giungono in prossimità di “Gone Tomorrow”, melodia insieme ruvida e delicata, chitarra acustica al trotto, che si disperde in una lunga coda rarefatta, e l’amarognola “The Good Life (Is Wasted)”, quasi un Johnny Cash assopito “all’ombra dell’ultimo sole”. Soffice e tremolante, la voce e la penna di Wagner indulgono nella nostalgia e nel romanticismo anche in “Kind Of” e nella conclusiva “I Never Heard”.
Avvolgenti e carismatici, capaci, aldilà di tutto, di affascinare e alla lunga anche di annoiare un po’, questa è l’impressione finale che ci lasciano i Lambchop col loro “Mr M”. Però è sempre bello sapere che ci sono e che non sono cambiati poi tanto.
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