And You Will Know Us By The Trail Of Dead
The Century of Self
Quando tra qualche mese faremo il giochino di scegliere dieci gruppi fondamentali degli anni ‘00s personalmente sarà dura esimersi dall’inserire i Trail of Dead, gruppo forse meno influente e innovativo di tanti altri, ma sicuramente mai banale né statico, e in grado di offrire una discografia che per qualità e quantità risulta davvero eccezionale.
Dall’esordio omonimo del 1998 ad oggi infatti non mi viene in mente un solo disco brutto del gruppo, neanche il tanto vituperato So divided (2006) che sviava su un alt-pop a tratti barocco ma a parere del sottoscritto ancora fortemente incisivo. A frotte invece i gioielli pubblicati dal gruppo, con menzione speciale per Source tags & codes (2002) e Words apart (2005), eccezionali dischi di alt(art)-rock memori delle tradizioni post-core, noise e pop, in particolar modo dei ‘90s.
E dopo la svolta pop-barocca di So divided c’era curiosità attorno a questo Century of self che, diciamolo subito, porta alle estreme conseguenze il cammino intrapreso tre anni fa ma con esiti davvero sfolgoranti, riallacciando un filo d’arianna con le origini rock più dure ma al contempo forgiando un marchio che appare una geniale versione moderna del progressive.
Lo si nota subito dalla vastità imponente dei suoni stratificati, elemento caratterizzante già nell’apertura in pompa magna di Giants causeway, di fatto un brano strumentale che fionda i King Crimson nel nuovo millennio. Ma è la maggior parte dei brani a mostrare caratteristiche simili: influssi diretti si trovano ad esempio in Halcyon days, in cui tra cori spirituali e raffinate partiture si attraversano limbi di oasi e accelerazioni impetuose alla Van der Graaf Generator da cui emerge un cantato intellettuale che ricalca Robert Wyatt. Ci sono poi momenti talmente artistici da situarsi al confine della musica classica, così in particolare buon parte del finale, con la breve parentesi sinfonica An august theme e il binomio Insatiable One – Insatiable Two, di fatto un brano unico in cui a fare la parte del leone è una fuga pianistica degna del miglior Yann Tiersen, con sensazioni di elegia davvero sublimi.
Ma è anche la struttura dei brani a definirsi sempre più nettamente in chiave progressive, anche quando i registri stilistici sono più ruvidi e robusti: Far pavillions è in tal senso l’esempio più calzante (oltre che il brano migliore del disco) con la sua esplosione noise-rock in bilico con un post-core vibrante da cui si fanno largo voci schizzate, fragori di chitarre e solide basi ritmiche. Il passaggio da uno stile all’altro è continuo e spiazzante, e l’assenza di pause impedisce di parlare di math-rock. Le continue ripartenze sono dunque sintomo di un pieno e maturo prog-core che colpisce come un pugno in pancia e che forse rappresenta quello e che avrebbero potuto (e magari voluto?) fare i Mars Volta se non si fossero persi via nelle loro allucinazioni ipercinetiche. Isis unveiled conferma l’andazzo con la sua roboante partenza epica e una stuttura che rimane tesa in bilico tra orchestrazioni elaborate, velocità pop-core e ventagli noise sonici. La struttura sinfonica appare stavolta ancor più netta con il lento affievolirsi del brano che pare richiudersi in sé stesso prima di esplodere nel cataclismatico finale. Nonostante le linee prog Ascending è infine probabilmente il pezzo che rende di più l’immagine core del lotto, con la sua natura più violenta figlia della tradizione Nations of Ulysses e Archers of Loaf.
Il gusto per la scrittura raffinata e un sound stratificato porta invece in certi casi a scontrarsi con un revival degli Smashing Pumpkins, che appaiono nitidamente in brani come Bells of creation e Inland sea: ritmi più attenuati e strascicati, melodie passionali e tenebrose e l’idea di un rock meno sfrenato ma intriso di classicismo romantico.
Ne viene fuori un grande disco, che anche nei momenti più convenzionali (il quasi riempitivo Pictures of an only child, il climax della scarna Luna park) e fasteggianti (Fields of coal è praticamente il contraltare alt-pop dell’orgiastica frenesia degli ultimi Animal Collective) tiene sull’attenti l’ascoltatore, offrendogli una prestazione complessiva esaltante e frizzante.
Pare strano citare così tante volte il termine “progressive” per un disco del 2009 senza associarlo a quello di “stroncatura”. Ma battute a parte l’impressione è proprio quella: dell’ennesimo sorprendente pacchettino confezionato dai Trail of Dead. E sottovoce qualcuno potrebbe quasi gridare al quasi-capolavoro. Capolavoro o no certo ora sarà davvero impossibile tenere fuori il gruppo da quella top ten dei ‘00s di cui si parlava sopra…
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