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R Recensione

3,5/10

Animal Kingdom

Signs and Wonders

Il titolo del loro primo disco del 2009, Signs and Wonders, non usava mezzi termini: gli Animal Kingdom ci speravano davvero. Tre ragazzi timidi e pettinati di indielandia. Alle spalle, una Sig.ra major (Warner) e un produttore, Phil Ek, che si lega a molti nomi noti del folk rock come Fleet Foxes e Band of Horses. Un sogno: riempire gli stadi con le loro ballate epiche, come profetizzato dall’attendibilissimo The Guardian, facendo tremare di invidia nientepopodimeno che i Sigur Rós (NME docet).

Certo che per essere un esordio, la band londinese ne ha sentite di presentazioni impegnative. E dopo questi ambiziosi paragoni, viene proprio voglia di mettere alla prova gli illustrissimi critici inglesi.  A primo impatto, il tratto del disco che si distingue e che potrebbe apparire (vagamente) interessante è il delicato e cullante timbro di Richard Sauberlich. O forse sarebbe opportuno dire l’unico.

Il percorso dalla track 01 alla 12 è infatti un encefalogramma assolutamente piatto – per non definirlo un’operazione narcolettica – e non privo di amari pentimenti sulla decisione di pigiare Play. Se il trio parte col piede giusto avventurandosi con backvocals un po’ retrò e di reminescenza Beatlesiana (Good Morning), in Signs and Wonders suona come un disco rotto appena dopo un minuto. Allarme diabete con Tin Man, il brano più ritmato da sfoderare negli encore (negli stadi, ovviamente) che risulta sempliciotto e quasi improvvisato per qualche fan dagli occhi strabuzzanti. Piuttosto goffi i tentativi di virata dark-pungente (Mephistopheles), di emulazione dei Coldplay (Bright Lights, Into the sea) e dei Radiohead (Yes sir, yes sir) che, oltre ad essere indice di scarsa creatività, sono talmente noiosi e algidi da far rimpiangere la Melevisione.

La carne al fuoco, in parole povere, è poca: tutto ruota attorno a questa vocina, che se alcuni definiscono “malinconica”, io tenderei a etichettare come “petulante”. Non scherziamo, la malinconia è ben altro: è introspezione, è sentimento, è dolore. E in questo disco non si avverte la profondità d’animo in grado di trasportarti in un’altra dimensione, anzi, è solo una mera speranza illusoria. Per tutto l’ascolto si spera sempre in un Colpo Di Scena spiazzante ma, ahimé, a livello compositivo quello che passa in convento al massimo sono testi da strimpellare sulla spiaggia con la solita chitarra spensierata o la canzoncina da prom appositamente studiata per far alzare lo smartphone al cielo (Chalk Stars).

Scarsa empatia per un gruppo presumibilmente progettato con l’idea di creare una forte connessione emotiva con il pubblico. Già on stage prima di Snow Patrol, Maximo Park e Vampire Weekend, Saberlich e soci sfornano un album di debutto scialbo, e ancora oggi risulta difficile comprendere come le migliaia di ottime band che si accontentano di anni di gavetta passando da un pub inglese all’altro non siano state preferite a loro.

Ecco perché, gli Animal Kingdom (o dovremmo forse ribattezzarli Animal Boredom?) dovrebbero fare attenzione, perché a furia di cullarci rischiano di dare speranze solo a chi soffre di insonnia. Chissà se riusciranno, a furia di calcare i palchi internazionali, a uscire dal pantano in cui sono bloccati.

 

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