Anna Calvi
One Breath
Per quei pochi che non si ricordassero bene di lei, la (oggi) trentatreenne cantautrice di padre italiano e madre inglese è stata una delle più fulgide rivelazioni della recentissima scena alternativa inglese. Si, perché nellomonimo album desordio di due anni fa faceva gran sfoggio non solo un sound fiammeggiante e di grande impatto misto di tagliente post punk femminino/mascolino alla PJ Harvey, barocchismi e suggestioni da colonna sonora e allunghi vocali quasi operistici (sia pure solo nel senso di opera-rock) ma anche un immagine (anti) divistica dai tratti particolarmente glamour e caratterizzanti. Tanto da mettere sostanzialmente daccordo critica e pubblico nellesaltazione (a tratti persino eccessiva) delle sue innegabili qualità e da suscitare qualche inevitabile antipatia. Daltronde il personaggio di Anna Calvi è così, al pari della sua musica: un coacervo di opposti e di ambiguità, di ombrosa timidezza e di sfrontata sensualità, una studentessa di musica un po impacciata che fino a ventanni non cantava neanche sotto la doccia perché si vergognava del suono della propria voce che dincanto si trasforma in una sfrenata amazzone che, bardata nei suoi stivali alti e nel suo completo da flamenco, galoppa al ritmo della sua band frustandola a colpi di acuti e di corde di chitarra.
E anche il suo sophomore album, One Breath, è un po così: bifronte e forse anche bipolare, per una buona metà prosegue sulla falsariga del primo, sebbene inserendo qualche elemento di novità (e varietà) negli arrangiamenti mentre nella seconda, più sperimentale e arty, lascia nettamente trasparire la volontà di evolversi in nuove direzioni, di non restare imprigionata nel proprio personaggio e nella ripetizione che, alla lunga, fatalmente porta con sé. Per questo nuovo lavoro la Calvi ha scelto di allargare il canonico trio (completato da Mally Harpaz e Daniel Maiden-Wood) con laggiunta di John Baggot (synth, organo, moog) e la violinista classica e arrangiatrice Fiona Brice (già collaboratrice, fra gli altri, di John Grant e Patrick Wolf), affidando la produzione allonnipresente John Congleton (vero e proprio nume tutelare della scena alternativa su entrambe le sponde dellAtlantico), il quale ha optato per una maggiore stratificazione sonica rispetto agli echi profondi ed espressionisti da pieno su vuoto dellomonimo, aggiungendo senza tuttavia saturare e giocando sulla contrapposizione/alternanza fra gli effetti e le manipolazioni della chitarra e il respiro orchestrale di archi e tastiere.
Il risultato, certosino e ambizioso, non tarda farsi sentire, sebbene in apertura brani come Suddenly ed Eliza non si discostino granché, per struttura e vocalità, dai cavalli di battaglia dellesordio, rispetto ai quali hanno forse meno mordente (o forse a mancare è solo leffetto sorpresa), mentre Cry evidenzia unottima progressione melodica, dalla strofa languida e sensuale al ritornello sfuggente, quasi in apnea come abraso dalla folata bruciante della distorsione; la prima variante arriva con Piece By Piece, più soffice e minimalista, incentrata su un giro electro dalla ritmica sincopata e irregolare e da una lunga fase strumentale in cui flanger e accompagnamento orchestrale sintarsiano, come pure epica e magniloquente dopo lapertura vagamente morriconiana è Sing To Me. Ma è solo nella seconda facciata, come si diceva una volta, che la Calvi cambia pelle e si lascia andare nella ricerca di soluzioni musicali più audaci rispetto al solito (pur fortunato) canovaccio: si comincia con la byrneiana/eniana Tristan, elegante e un po fredda nel suo compiaciuto romanticismo, per culminare con la title-track, probabilmente la migliore in assoluto, completamente trasformata dopo una prima parte tirata e percussiva e una breve interferenza/distorsione in una grande e solenne ascesa tutta orchestrale; notevole, nel minimalismo di fondo, è pure la suspence dissonante e cinematica che trasfigura nella lunga e insistita coda finale un pezzo come Carry Me Over; e se la grintosa Love Of My Life con il suo fuzz squassante ci riporta coi piedi per terra con un memorabile riff garage/grunge da riot grrrl daltri tempi, più irrisolte anche se non prive di un loro fascino, Bleed Into Me adombra un call and response (caveiano) stilizzato e chiaroscurale, mentre la conclusiva The Bridge è una corale nordica e classicheggiante, spettrale e metafisica almeno nelle intenzioni.
Un ponte che sembra condurre la Calvi verso un art-rock più sfaccettato e cerebrale, riscattato anche nei momenti più deboli dalle doti interpretative e dalla sofferta, vibrante umanità della performance vocale e che per il momento ci regala un album di transizione, comunque fervido e raffinato, prodotto di unevidente introspezione/evoluzione, anche se ancora lontano dalla consacrazione che in molti si aspettavano o hanno voluto trovarvi a tutti i costi.
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