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R Recensione

7/10

Anna Calvi

One Breath

Per quei pochi che non si ricordassero bene di lei, la (oggi) trentatreenne cantautrice di padre italiano e madre inglese è stata una delle più fulgide rivelazioni della recentissima scena alternativa inglese. Si, perché nell’omonimo album d’esordio di due anni fa faceva gran sfoggio non solo un sound fiammeggiante e di grande impatto – misto di tagliente post punk femminino/mascolino alla PJ Harvey, barocchismi e  suggestioni da colonna sonora e allunghi vocali quasi operistici (sia pure solo nel senso di opera-rock) – ma anche un’ immagine (anti) divistica dai tratti particolarmente glamour e caratterizzanti. Tanto da mettere sostanzialmente d’accordo critica e pubblico nell’esaltazione (a tratti persino eccessiva) delle sue innegabili qualità e da suscitare qualche inevitabile antipatia. D’altronde il personaggio di Anna Calvi è così, al pari della sua musica: un coacervo di opposti e di ambiguità, di ombrosa timidezza e di sfrontata sensualità, una studentessa di musica un po’ impacciata che fino a vent’anni non cantava neanche sotto la doccia perché si vergognava del suono della propria voce che d’incanto si trasforma in una sfrenata amazzone che, bardata nei suoi stivali alti e nel suo completo da flamenco, galoppa al ritmo della sua band frustandola a colpi di acuti e di corde di chitarra.

E anche il suo “sophomore” album, “One Breath”, è un po’ così: bifronte e forse anche bipolare, per una buona metà prosegue sulla falsariga del primo, sebbene inserendo qualche elemento di novità (e varietà) negli arrangiamenti mentre nella seconda, più sperimentale e arty, lascia nettamente trasparire la volontà di evolversi in nuove direzioni, di non restare imprigionata nel proprio personaggio e nella ripetizione che, alla lunga, fatalmente porta con sé. Per questo nuovo lavoro la Calvi ha scelto di allargare il canonico trio (completato da Mally Harpaz e Daniel Maiden-Wood) con l’aggiunta di John Baggot (synth, organo, moog) e la violinista classica e arrangiatrice Fiona Brice (già collaboratrice, fra gli altri, di John Grant e Patrick Wolf), affidando la produzione all’onnipresente John Congleton (vero e proprio nume tutelare della scena alternativa su entrambe le sponde dell’Atlantico), il quale ha optato per una maggiore stratificazione sonica rispetto agli echi profondi ed espressionisti da “pieno su vuoto” dell’omonimo, aggiungendo senza tuttavia saturare e giocando sulla contrapposizione/alternanza fra gli effetti e le manipolazioni della chitarra e il respiro orchestrale di archi e tastiere.

Il risultato, certosino e ambizioso, non tarda farsi sentire, sebbene in apertura brani come “Suddenly” ed “Eliza” non si discostino granché, per struttura e vocalità, dai cavalli di battaglia dell’esordio, rispetto ai quali hanno forse meno mordente (o forse a mancare è solo l’effetto sorpresa), mentre “Cry” evidenzia un’ottima progressione melodica, dalla strofa languida e sensuale al ritornello sfuggente, quasi in apnea come abraso dalla folata bruciante della distorsione; la prima variante arriva con “Piece By Piece”, più soffice e minimalista, incentrata su un giro electro dalla ritmica sincopata e irregolare e da una lunga fase strumentale in cui flanger e accompagnamento orchestrale s’intarsiano, come pure epica e magniloquente dopo l’apertura vagamente morriconiana è “Sing To Me”. Ma è solo nella seconda facciata, come si diceva una volta, che la Calvi cambia pelle e si lascia andare nella ricerca di soluzioni musicali più audaci rispetto al solito (pur fortunato) canovaccio: si comincia con la byrneiana/eniana “Tristan”, elegante e un po’ fredda nel suo compiaciuto romanticismo, per culminare con la title-track, probabilmente la migliore in assoluto, completamente trasformata dopo una prima parte tirata e percussiva e una breve interferenza/distorsione in una grande e solenne ascesa tutta orchestrale; notevole, nel minimalismo di fondo, è pure la suspence dissonante e cinematica che trasfigura nella lunga e insistita coda finale un pezzo come “Carry Me Over”; e se la grintosa “Love Of My Life” con il suo fuzz squassante ci riporta coi piedi per terra con un memorabile riff garage/grunge da riot grrrl d’altri tempi, più irrisolte anche se non prive di un loro fascino, “Bleed Into Me” adombra un call and response (caveiano) stilizzato e chiaroscurale, mentre la conclusiva “The Bridge” è una corale nordica e classicheggiante, spettrale e metafisica almeno nelle intenzioni.

 Un “ponte” che sembra condurre la Calvi verso un art-rock più sfaccettato e cerebrale, riscattato anche nei momenti più deboli dalle doti interpretative e dalla sofferta, vibrante umanità della performance vocale e che per il momento ci regala un album di transizione, comunque fervido e raffinato, prodotto di un’evidente introspezione/evoluzione, anche se ancora lontano dalla consacrazione che in molti si aspettavano o hanno voluto trovarvi a tutti i costi. 

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 6 voti.
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gull 5/10

C Commenti

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forever007 (ha votato 10 questo disco) alle 16:15 del 29 ottobre 2013 ha scritto:

Per me è un album da capogiro..artistico, preponderante, fiabesco, insomma unico. Il migliore di questo 2013. La recensione è buona solo che dal voto mi aspettavo che sottolineassi qualche difetto oggettivo (magari il songwriting un pò ermetico) mentre è piena di immagini e figure metaforiche che fanno pensare che stai recensendo un album almeno da 8...

simone coacci, autore, alle 18:21 del 29 ottobre 2013 ha scritto:

Probabilmente non è lei è ad essere stata troppo ermetica ma io. E di questo, nell'eventualità, chiedo venia. In soldoni ci sono 6-7 brani piuttosto buoni, un paio che ricalcano un po' stancamente i cliché dell'esordio e un altro paio che, nel loro sfoggio di bravura e cura dei suoni, sembrano un po' slegati e fini a se stessi. Dopo reiterati e attenti ascolti non mi ha convinto del tutto. Per ora è così ma magari fra qualche tempo sarò io stesso a darmi torto. Mi succede continuamente. Grazie dell'osservazione pertinente e puntuale, in ogni caso.

Jacopo Santoro (ha votato 6,5 questo disco) alle 19:22 del 29 ottobre 2013 ha scritto:

Che la signorina Calvi sia particolarmente brava a maneggiare la sua Telecaster e a modulare la voce con fare quasi lirico, è un fatto piuttosto assodato, e nessuno lo mette in dubbio. Ciò che a me fa sembrare "One breath" un passo indietro rispetto all'esordio omonimo, illuminante, è però l'aspetto prettamente compositivo, che ho trovato scarso e a tratti impalpabile. Lo dimostrano le uscite vocali, i cori, fatti sovente di ritornelli senza parole, riempimenti di vuoti strutturali.

Leggo qui sopra che il CD è "artistico", "fiabesco": lo è, a mio avviso, solo a tratti, di certo in misura minore rispetto al virtuosismo di "Rider to the sea", al misticismo di "The devil", alla sfrontatezza di "Love Won't be leaving", alla purezza di "Morning light". Per questo concordo col giudizio finale di Simone, che definisce l'album "di transizione", e non il picco assoluto che in tanti riconoscono.

Peraltro la sua tecnica divenuta ormai marchio di fabbrica, lo "sweep-picking" sulla chitarra, dimostra di stancare, quando appare così frequentemente. O dimostra, come già detto, una pochezza di idee.

Ho trovato meraviglioso, tuttavia, il solo barocco di Eliza, tra i pezzi migliori di un disco che, per me, non impenna mai, neanche quando l'impennata è vicina. Piccola delusione per me che sono un CALVInista dal gennaio del 2011.

Jacopo Santoro (ha votato 6,5 questo disco) alle 20:10 del 29 ottobre 2013 ha scritto:

P.S. Ottima e centrata la recensione del Coacci, piena di equilibrio.

gull (ha votato 5 questo disco) alle 19:57 del 30 ottobre 2013 ha scritto:

Dopo un primo ascolto al pc (assolutamente non probante, stante il suono scarsissimo delle casse) mi era sembrato una totale schifezza. Ulteriori ascolti, soprattutto in circostanze migliori (stereo e cuffie), lo hanno parzialmente riabilitato. Resta povero di ispirazione, salvato sporadicamente dalla classe e potenza vocale della Calvi. Concordo parecchio con Jacopo Santoro, i ritornelli senza parole dimostrano una verve compositiva deludente. E non basta sovraccaricare di arrangiamenti alcune canzoni o partire con effettacci assortiti. In alcuni momenti, quando sembra esserci il pezzone, parte il coretto osceno a rovinare tutto. Disco di transizione a dir poco.

Franz Bungaro (ha votato 8,5 questo disco) alle 21:06 del 30 ottobre 2013 ha scritto:

Ancora non so dire bene se mi piace più questo o il primo. Ma probabilmente più questo. Più completo, variegato, strutturato, complesso, profumato. L'impressione è quella di un concept album, di un film, di una storia che va ascoltata dall'inizio alla fine per coglierne appieno il sapore, per apprezzarne pienamente le singole sfumature. Da Jeff Buckley a Morricone con la stessa facilità con la quale si può passare dal pianto alla speranza passando per il sogno. La chitarra di Anna Calvi è un timbro, un marchio di fabbrica, cosa che pochi hanno nel futile mondo degli emulatori ciechi. Anna Calvi è una delle cose più belle accadute alla musica negli ultimi anni. Questo disco è, tipo, un capolavoro. Un altro. Eccheccazzo Annaaa datte na calmataaaa!!!

NathanAdler77 (ha votato 7,5 questo disco) alle 1:38 del 10 giugno 2014 ha scritto:

Il trittico finale "Carry Me Over", "Bleed Into Me" e "The Bridge" è da fuoriclasse vera: (visionari) strappi impressionisti che trovano nella cura-Congleton l'equilibrio ideale tra il consueto slancio operistico\romantico di miss Calvi e un'inedita tensione creativa. Ma credo che la ragazza di Twickenham abbia la personalità e i mezzi giusti per scriversi un futuro ancora più autorevole e importante.