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R Recensione

6,5/10

Baroness

Gold & Grey

Quasi a dimostrare l’assoluta interconnessione tra esperienze accidentali della vita umana e mutamenti culturali, i Baroness per come li si conosce ed ascolta oggi sono il frutto di almeno tre operazioni strutturali. La prima e più radicale, dal carattere popolar-enciclopedico, che nel lontano 2012 trasformò i figliocci sudisti dei Mastodon (quali, soprattutto, erano emersi nel “Blue Record”) nei rifondatori di una new wave metallica senza più molto di metal (“Yellow And Green”, ad oggi la loro prova più ambiziosa e riuscita). La seconda, deonticamente consequenziale, che di fronte ad uno spaventoso incidente stradale e alla successiva e comprensibile defezione della sezione ritmica del tempo (il bassista Matt Maggioni, il batterista Allen Blickle) costrinse il leader John Baizley a riscrivere da capo il proprio futuro artistico con un disco immediato nelle intenzioni, facile nei toni e drammaticamente minore nei risultati (“Purple”, 2015). La terza, cui si arriva oggi attraverso un ennesimo cambio di line up (l’ottima chitarra solista di Gina Gleason al posto di Peter Adams), torna ad innervare di estetica progressiva l’addomesticata forma canzone dei due lavori precedenti, in una maniacale opera di diversificazione e torrefazione di una grande quantità di spunti. Uno zibaldone alla portata di tutti: ecco la specificità di “Gold & Grey”.

Piuttosto arduo da sintetizzare in poche battute, il giudizio sul quinto disco lungo del quartetto di Savannah, Georgia (la cui copertina, disegnata come al solito da Baizley, per plasticità dinamica dei cromatismi e gusto rococò delle immagini supera in bellezza persino quelle precedenti): un platter che sembra nato per sfidare lo schematismo di valutazioni e prese di posizione della critica contemporanea, tale è la qualità e la densità delle idee distribuite a pioggia lungo quest’ora abbondante di musica. La considerazione di partenza potrebbe risultare a molti inusuale: l’impeccabile profilo tecnico della formazione dei Baroness in questo particolare momento storico si traduce, in primo luogo, in una cura del songwriting senza precedenti, aspetto che da un lato regala canzoni di (obiettivo) gran spessore e, dall’altro, sottolinea prestazioni strumentali sorprendenti. Decisivo, a più riprese, l’innesto di Gina Gleason, chitarrista di gran perizia ed inventiva, capace di un solismo che nella sua creatività non è mai invadente (si ascoltino i fraseggi aerodinamici del montante heavy di “Front Toward Enemy”, le catalizzatrici fughe drammatiche di “Seasons”, i tapping che accompagnano le strofe in “Borderline” tra gli altri). L’innalzamento dell’asticella tecnica è, poi, propedeutico ad una maggiore diversificazione stilistica: e per le orecchie degli appassionati, anche prescindendo dalle numerose strumentali di raccordo che puntellano la tracklist (di grande bellezza l’arrangiamento d’archi di “Anchor’s Lament” e la quasi glitch di “Assault On East Falls”), c’è di che divertirsi, scivolando in un solo movimento dal bombastico AOR di “I’m Already Gone” (di grande effetto la coda felpata delegata al sinuoso basso di Nick Jost) al lirico afflato di pura southernmericana di cui è imbevuta la magnifica “Tourniquet”, dal fracking power rock che scuote le fondamenta post-core di “Throw Me An Anchor” alle apparizioni wave-gaze che, in “Pale Sun”, scarnificano la struttura del pezzo sino a lasciare il nudo urlo di Baizley.

Com’è noto, tuttavia, ogni medaglia esibisce due facce e i contro di “Gold & Grey”, pur non ridimensionandone i numerosi aspetti positivi, si stagliano con altrettanta nettezza. Per quanto i detrattori del disco lo abbiano eletto a controargomento principe, di fatto depotenziandolo, non si può non tornare a puntare il dito sulla scellerata produzione di Dave Fridmann, che comprime volumi e frequenze oltre ogni ragionevole limite, acuendo la distorsione dello spettro sonoro sino a un punto di non ritorno. Non ci è dato conoscere le ragioni profonde di questa scelta, ma quel che è certo è che, a tratti, diviene persino complicato capire cosa si stia ascoltando (la coda futuristica di “Throw Me An Anchor” è deformata al punto di sciogliersi in un flusso di rumore bianco): a farne le spese sono soprattutto i tamburi di Sebastian Thomson, che esplodono con innaturale fragore (si sentano i soli blast sul ritornello epico di “Seasons”, peraltro il frangente più esplicitamente metal dell’intero disco), finendo ad un passo dall’autoparodia (come nell’hard rock assordante di “Broken Halo”). L’esperienza dell’ascolto, funestata dalla presentazione formale del materiale, deve poi affrontare un’altra problematica scelta stilistica, quella dell’impostazione vocale di Baizley: un cantato di per sé tutt’altro che dotato, ma sempre e comunque teso alla spasmodica ricerca di un’armonizzazione perenne, con il nefasto risultato di appiattire la profondità di molte linee melodiche su infiniti stiramenti vocalici (inutilmente enfatici, ad esempio, il lento “I’d Do Anything” e molte sezioni di “Borderline”). È una sovrabbondanza che da un lato stordisce, dall’altro stomaca, risultando in un costante calo di concentrazione che interessa soprattutto la seconda metà del disco (quasi impossibile, la prima volta, ascoltare “Gold & Grey” in un’unica soluzione: se ne esce travolti).

Dispiace essere severi con quello che, sulla carta, avrebbe potuto facilmente essere un papabile candidato a disco metal dell’anno (qualsiasi accezione si voglia dare all’etichetta). Eppure, è impossibile non constatare che, ad un passo dal traguardo, ai Baroness manchi sempre qualcosa per compiere l’ultimo e più decisivo salto di qualità. La caccia all’equilibrio definitivo segna, per il momento, un’altra battuta d’arresto. 

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