Beck
Odelay
“Je suis un revolutionaire”. Non è l’ultimo proclama napoleonico di qualche borioso allenatore portoghese o industriale-premier brianzolo, ma un simbolico particolare dell’eccentrico art-work di “Odelay”. Una frase in rosso nel retro-copertina freak, sembra buttata lì a caso invece ha un significato inequivocabile e perentorio: questo non è un parcheggio abusivo per riccardoni maniaci e segaioli, alla larga i conformisti del bel suono e le pecorelle smarrite che amano pascolare nei recinti musicali controllati dal mainstream. Cambiate strada, fate retromarcia, inversione a u, stop e gas.
Un messaggio forte e chiaro a chi all’epoca era abituato ai gargarismi di Céline Dion, e crede che la sbobba-melassa di Nashville sia il vero country. Beck Hansen ha le idee supersoniche che gli schizzano nella testa come palline da ping-pong in un torneo Cina-Resto Del Mondo. C’è stato il folk, il garage, la psichedelia, l’elettronica-krauta, la new-wave, il noise, i Public Enemy e c’è Beck. Lo sbarbatello biondo è la mente più lucida e avanguardista del meltin’ pot anni Novanta, un folle alchimista che gioca con lo studio di registrazione neanche fosse il Lego, smonta e assembla impossibili samples da improbabili tracce kitsch del passato prossimo, impianta loop e citazionismo colto in un modernariato-pop senza dogane né patria.
Il mostro low-fi “Mellow Gold” spiegò al mondo il genio casalingo del dr.Frankenstein\Hansen, “Odelay” (con più mezzi e ambizione direttamente proporzionale) avrebbe completato l’opera di destrutturazione e taglia-incolla su quarant’anni di Storia della musica. È il definitivo manifesto programmatico di quest’anima candida californiana divisa tra Prince, Beastie Boys, Hank Williams, David Bowie, Sonic Youth, Kraftwerk, Kurt Cobain e qualunque altro nome su vinile o compact disc abbiate a memoria. Il crossover estremo del “loser” spirituale Beck è uno stato mentale, dove tutto è possibile e tutto è il contrario di ciò che pensi. Non ci sono despoti-pennivendoli che etichettano pigramente il tuo culo-ballerino, magari al ritmo di un vintage soul-funk di terza mano, nel regno post-moderno di “Odelay”.
Beck è un ossessivo archivista del sacro & profano, un entomologo musicale dell’utile+futile in lotta perenne contro i mulini al vento della routine pop. “Odelay” frantuma qualsiasi residuo di barriera stilistica, è un zappiano minestrone “non-genere” che li fagocita tutti, e la lista di produttori (oltre il signor Hansen) rende bene l’idea di una schizofrenia quasi oltraggiosa nell’ambito dei conservatori codici Rock: dai venerati Dust Brothers e Mario Caldato jr. (Beastie Boys) a Brian Paulson, da Tom Rothrock a Rob Schnapf. L’artista di Los Angeles suona chitarra acustica, elettrica, basso, armonica, tastiere, organo, piano elettrico, slide-guitar, clavinet, praticamente tutto (incluso mixing e art-direction) ed è coadiuvato da gente che risponde al nome di Charlie Haden (basso), Greg Leisz alla pedal-steel, Joey Waronker alla batteria, David Brown (sassofono) e gli arrangiamenti del celebre orchestratore David Campbell, paparino del Nostro. Discorso a parte meriterebbe il complesso lavoro dietro la consolle, con campionamenti e loop in quantità industriale.
“Devil’s Haircut”, dal magnifico e paranoico videoclip, apre il secondo album pubblicato su Geffen di Beck ed è un formidabile singolo-killer che incrocia l’affilato giro blues all’incedere percussivo Big Beat. Un aspro soul\rock digitale e luciferino, con la voce filtrata di Mr.Hansen che esplode infine nel grido distorto “…Devil’s haircut! In my mind!…” La superba “Hotwax” centrifuga in un colpo solo lo spettro di Robert Johnson e uno stiloso groove funky, il fluido recitato-rap e un refrain da manuale, sghembi inserti elettronici e un turgido finale da “blaxploitation”. Almeno cinque diversi generi spesso in sovrapposizione, chapeau. L’eretico country-cazzone dalle chitarre fuzz di “Lord Only Knows” è insieme parodia e indolente tributo a bassa fedeltà (memorabile l’incipit, uno sguaiato e irresistibile urlo punk).
Beck utilizza il recipiente della musica popolare e frulla l’inverosimile, il risultato è inedito, spiazzante e (incredibilmente) catchy. Prende spensierata lounge music anni ’60 e l’amata bossanova, un sax a colorare sensuali atmosfere jazzy et voilà, ecco il capolavoro (“The New Pollution”), rallenta un drogato raga tribale tra rito voodoo e Tom Waits (la claustrofobica “Derelict”) e indossa i panni del classico folk-singer fuori dal tempo nella sentimentale “Jack-Ass”. Fulminante “Novacane”, paradossale hardcore\hip-hop trasfigurato dal delirio electro della coda, un collasso di rumorini e scorie analogiche.
“Odelay” è un continuo reboot del linguaggio rock, e il pallido “slacker” dal viso slavato il prototipo perfetto del nuovo cantautore formato “Generazione X”. Tracce epocali quali il soul\rap-psichedelico del prodigioso downtempo “Where It's At” (che campiona “Needle To The Groove” dei Mantronix, “Military Scratch” di Grand Wizard Theodore, i Frogs e Lee Dorsey) o i dylanismi crepuscolari della elegiaca “Ramshackle” non si dimenticano facilmente, e contribuiscono a rendere lo status beckiano presso la scena “indipendente” pressoché inattaccabile. Nell’impressionante calderone sonoro trovano posto anche il Thurston Moore da camera di “Minus” e i soliti Ragazzi Bestiali (evidente il tocco di Caldato jr.)+disco+industrial+latinismi vari della caotica “High 5 (Rock The Catskills)”, un marasma organizzato in cui spuntano perfino i Grand Funk Railroad di “Inside-Looking Out” ed estratti dalla Sinfonia N.8 “Incompiuta” di Schubert, ulteriori esempi di un eclettismo impari e assoluto.
“Je suis un revolutionaire” scrivevamo in apertura, e non era una banale e supponente frase a effetto. Poi guardi l’assurdo salto a ostacoli della fantastica cover (un tappeto atleta? no, è il komondor, pazzesco cane ungherese) e il pensiero corre al contenuto strabordante di “Odelay”, una pietra miliare che rende superfluo ogni possibile tentativo di catalogazione, oggi come nel 1996. Diffidare delle imitazioni, nei secoli.
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