Blur
13
I contenuti di “13” erano troppo forti per illudersi che gli equilibri all’interno della band potessero restare immutati a fronte di simili ardite partiture, così dannatamente differenti da quanto i Blur avevano proposto fino a quel momento nella loro brillantissima carriera, la più continua – a livello di rendimento – e sorprendente – a livello di scelte stilistiche – tra quelle sbocciate negli anni 90 in Inghilterra.
Si credeva che la tempesta potesse esser circoscritta al disco omonimo uscito due anni prima.
Un disco dall’atmosfera decisamente adulta, a suo modo sperimentale e coraggioso nel tentare di lasciarsi alle spalle i tratti più grossolani e popolari del talento di Coxon e Albarn. Una prova di maturità, un chiaro manifesto d’intenti orientato alla dimostrazione che era possibile guardare oltre il brit-pop. E al tirar delle somme tale coraggio premiò la band di Colchester con dei risultati artistici molto, molto elevati.
“13” estremizza le scelte compiute in “Blur” fino a richiedere all’ascoltatore un autentico atto di fede per metabolizzare e accettare arrangiamenti elettronici, canzoni che strizzano quasi l’occhio alla cacofonia e che si chiudono in un ermetismo che ai più risultò incomprensibile. All’epoca della sua uscita il leak anticipato delle canzoni era ben poca cosa e per chi – come il sottoscritto – acquistò a scatola chiusa il disco il giorno del sua arrivo sul mercato, constatare traccia dopo traccia che la vena pop dei Blur era per ben più di metà andata persa o quantomeno accantonata a favore di altre soluzioni, fu davvero un bel colpo. Un colpo giudicato “basso”, almeno nei primi mesi di confidenza con il disco.
È la lettura del sottostrato emotivo di “13” il tesoro nascosto di questo album : il disco tra i suoi solchi duri e ingenerosi, nasconde una straordinaria melodrammaticità e un’intensità emotiva molto diretta che riesce a coinvolgere più di tanti altri Lp progettati a tavolino per fare presa sul lato emotivo dell’ascoltatore.
Ci troviamo di fronte a dei Blur che accentuano il loro lato cantautorale regalando alla storia, tra gli altri, pezzi che grazie a tutta la loro natura distorta e obliqua resteranno per sempre impressi nella memoria degli ascoltatori tra gli inni più rinomati di casa Albarn & Coxon.
“No distance left to run” è l’emblema del disco. Struggente, deviata, oscura, sincera. Sembra che il canto provenga da una dimensione diversa rispetto alla nostra. Dal profondo. Un giro di chitarra da bluesman ubriaco, andamento da ninna-nanna assassina, disincanto che cela disperazione.
O “Trimm trabb” un pezzo rock quasi con intenzioni progressive che poggia su di un disturbato tappeto di chitarra ideato per una deflagrazione che dal vivo è ancora più devastante.
“Coffe & TV” e “Tender” sono i celebri e perfetti epitaffi dei Blur che furono. Emblematico il posizionamento di una canzone come “Bugman” (sulla falsariga di “song 2” ma con più distorsioni e decibel impazziti) : come a voler pagare subito il tributo per quanto espresso poco prima con “Tender”.
L’anima oscura del disco che trascende da queste concessioni alla platea si aggira minacciosa nel cuore di pezzi come “1992”, “Battle”, “Trailerpark”, “Caramel”.
Composizioni profonde, probabilmente non del tutto riuscite, ma che trasudano di quel coraggio e quella sorta di propensione al confronto con se stessi e con i propri limiti che sono state le barriere oltre le quali molte band contemporanee ai Blur non sono riuscite ad andare.
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