Chris Cornell
Carry On
Se anche uno soltanto fra i miei tre manzoniani lettori ricordasse ancora la recensione a The Night Watchman di qualche tempo fa, potrebbe legittimamente pensare che mi diverta ad infierire sulle incaute escursioni soliste dei miei idoli di gioventù. Che sia un sadico atto mancato nel celare la difficoltà di accettare il banale ricambio delle stagioni (musicali) o l’esplicita volontà di uccidere, “nietzschianamente”, i propri padri (o perlomeno i fratelli maggiori)? Troppa grazia, grazie tante.
In realtà la mia pulsione è più simile a quella di un modesto istrione da bar che dopo molti anni incontra un vecchio amico e lo trova sposato, imbolsito, vestito Ermenegildo Zegna da capo a piedi e per giunta ammantato d’un’untuosa patina di rispettabilità sociale e crassa soddisfazione, così pensa bene, prima di offrirgli da bere, di farlo passare sotto le sfottenti forche caudine dell’(auto)critica e dell’(auto)ironia. Ehm...dunque, dove eravamo rimasti?
Ah si, per i più giovani ecco un breve riepilogo delle puntate precedenti: 1996, i Soundgarden si sciolgono, Down on the upside è il loro controverso epitaffio, lasciandoci orfani del reticolato di chitarre più spinoso ed abrasivo di tutti gli anni ’90 e del loro simbolismo decadente alla Sylvia Plath; 1999, esce Euphoria Morning, per la prima volta “il Chris” è on his own, funestato e depresso dal tentativo di adattare le crudezze della propria poetica “dostoevskijana”, densa di cattolicesimo eretico e senso di colpa, alle lunghe tirate vocali e sinfoniche dell’amico (defunto) Jeff Buckley; segue un oscuro oblio in cui baluginano soltanto voci di alcolismo, lifting alle corde vocali e altre leggende più o meno metropolitane; poi nel 2001Christopher J. Cornell riemerge dai suoi incubi alla testa dei tre ex Rage Against The Machine nel progetto Audioslave e qui, nonostante una voce lievemente arrochita, più bassa di almeno mezza ottava, sorvolando sul poco decoroso campionario di tatuaggi strategici, canottiere ultimo grido, gioielli, collanine e capelli sparati, riesce a mettere insieme tre lavori perlomeno passabili (specialmente il primo e il terzo).
Poi voci di scioglimento, inevitabili smentite ed infine l’annuncio ufficiale: il singolo You know my name, pezzo forte della colonna sonora dell’ultimo 007, è l’antipasto del nuovo “solo” Carry On (Universal, 2007) prodotto dal santone del rock più levigato, immediato, “paraculo” e radiofonico che si possa immaginare, Steve Lillywhite.
Già in apertura, con le rombanti Such a thing e Poison Eye, Cornell sembra marcare nettamente la distanza dallo spleen cerebrale e tenebroso di Euphoria Morning: l’atmosfera che circonda i pezzi sembra piuttosto quella svagata dell’AOR di fine anni ’70/inizio anni ’80 (così su due piedi mi viene da pensare a Def Leppard, Reo Speedwagon o ai primi Bon Jovi) forgiato in uno stampo sonoro grunge, inteso più come rigida sovrastruttura e pleonastica forma mentis che come genere vitale e coerente.
Lo smalto vocale è sempre notevole anche se il fiammeggiante manierismo d’un tempo brilla ormai soltanto in scintille gentili e dorate, in un’interpretazione che si preoccupa solo di curare gli aspetti più melodici ed accattivanti del cantato. Arms around your love è una ballata imbarazzante con effetti di chitarra che neanche gli Europe e un ritornello alla James Blunt. Safe and sound e She’ll never be your man, per fortuna, riportano il discorso musicale ad un livello perlomeno decoroso con un hard rock melodico venato di blue eyed soul, un melange di Temple Of The Dog e Earth Wind And Fire, potremmo dire.
Ghosts è un pop-grunge orecchiabile che ingoia d’un fiato ogni malinconia senza neanche darti il tempo di assaporarla. Killing Birds che sta a metà fra il miglior Lenny Kravitz ed il peggior Ben Harper, si fa menzionare soltanto per un assolo slide ultra-tamarro e un curioso contrappunto di drum machine. Billie Jean, ebbene si, è proprio quello che pensate voi, una cover di “White Michael” l’amico dei bambini, e...beh, che ci crediate o meno, è forse il brano più bello dell’intero disco (magari anche l’unico), ornato soltanto d’un leggero abito acustico e cantautorale che a tratti ricorda certe ballate dell’amico Eddie Vedder, e trascinato da un’eccellente performance vocale, fra Robert Plant e Jimi Hendrix, fino ad un ritornello romantico e melodrammatico.
Poi si ripiomba nella mediocrità (nemmeno tanto aurea) con Scar on the sky, una pastorale pop-country piuttosto epidermica e Your soul today, riff “stonesiano” periodo Start meup che sbraca in un allegro ritornello da sabato sera in decappottabile. Potrebbe già bastare per formulare un giudizio complessivo eppure decido di bermi l’amaro calice fino in fondo, d’altronde al Chris, vecchio compagno di mille canzoni, un poco glielo devo: Finally forever non sarebbe neanche spregevole nel genere classic rock ballad se avessero evitato di spalmarla con vergognosi ghirigori amplificati dal delay; Silence the voices è un’anonima marcetta sul reducismo già pronta per essere infilata nella colonna sonora di un film hollhywoodiano con Renèe Zellweger; Disappearing Act, un folk-pop radiofonico di quelli con cui Mr.Lillywhite si fa le pippe da trent’anni. In tutto questo sfacelo You know my name arriva come una gradita eccezione con il suo respiro epico-cinematografico e gli azzeccati rimandi al futurismo pop e orchestrale di John Barry.
Il “Bond-Boy” chiude però nel peggiore dei modi con la bouns track Today, sviolinata pop su reperto grunge archeologico e mummificato, infiorettato da gorgheggi in falsetto e trucchetti alla Elton John davvero poco dignitosi.
Come diceva il nostro Francesco Guccini, caro Chris, “...voglio però ricordarti com’eri e pensare che ancora vivi...”. E il mezzo punto in più sul voto, sta proprio a significare questo.
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