R Recensione

4/10

Cog

Sharing Space

Il grosso problema dei Cog è l’incapacità di capire che l’ascoltatore non può essere costantemente tenuto per mano per un disco intero, accompagnato in maniera asfissiante dall’onnipresente vocione del cantante Flynn Gower. Soprattutto se il suo timbro si ostina ad essere fastidiosamente simile a quello del cantante dei Nickelback. E soprattutto se si ostina a sovrastare ogni attimo le parti strumentali con uno stile vocale che spazia tra il post-grunge e l’alt-rock più becero.

Ed è un peccato perché Gower rende davvero difficile l’ascolto di un disco che altrimenti presenta aspetti musicali se non propriamente belli e avvolgenti, quanto meno interessanti e ben curati. Certo non si può dire che la band australiana (giunta alla seconda fatica dopo l’esordio The New Normal del 2005) sia questo apice di originalità. Anzi, si può affermare senza troppi problemi che il suo alternative (hard)rock venato di progressive sia un genere trito e ritrito che non riesce a ricreare neanche lontanamente le atmosfere floride di certi revivalisti heavy (Black Mountain, Wolfmother) o avventuristi prog (Triclops) del panorama musicale odierno.

Nonostante ciò certi episodi più che discreti riescono anche a metterli assieme i Cog, come la trama intrigante di The town of Lincoln, oppure come il delicato intimismo di How long.

I risultati migliori però vengono senz’altro dai tentativi più cupi tesi a seguire la lezione di un rock oscuro sullo stile dei Tool: è il caso di What if, dalla parte strumentale notevole, e dell’ondeggiante Bitter pills.

Si potrebbero salvare per il rotto della cuffia anche certe composizioni hard-rock (The movies are over, Problem reaction solution) molto melodiche (quasi pop praticamente) e dai ritornelli più curati e riusciti.

Anche questi brani risentono però del “problema Gower”, un virus che riesce a rovinare quel poco che di buono sembra esserci in Sharing space. Se ci aggiungete che nel complesso il disco è tendenzialmente troppo omogeneo e lungo, che spesso e volentieri i chitarroni sembrano buttati lì senza uno straccio di idea, e che la musica tende ad una epicità (tipica del prog d’altronde) decisamente esasperata, capirete il motivo per cui ci si permette di non consigliare un album che preferiamo far ascoltare a quello squisito paese che è l’Australia.

 

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