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R Recensione

6/10

Jordaan Mason

The Decline of Stupid Fucking Western Civilization

Jordaan Mason è un ragazzo di Toronto che spesso ama definirsi illetterato e che qualche anno fa pubblicò un disco di folk ubriaco e sconclusionato che non faceva troppo rimpiangere, si parva licet, i Neutral Milk Hotel dell'aeroplano. Si intitolava “Divorce Lawyers I Shaved My Head” e aveva in copertina un uomo con una testa di cavallo addosso seduto su una sedia in un tinello. Lo recensimmo solo qua, credo, ma in giro troverete persone che ve lo indicheranno come il loro disco preferito di sempre. (È un album bellissimo: recuperatelo).

A sei anni Mason torna senza la banda che lo accompagnava lì, e dunque il suo cantato lagnoso e stonato risulta, in un arrangiamento classicamente composto da chitarra-basso-batteria, meno efficace, per quanto più personale. Si è tra slow-core e alt-rock, in una zona scarna e ruvida che può risultare piuttosto urtante, considerate anche le immagini (spesso alquanto illetterate, o quantomeno difficilmente decifrabili) di violenza domestica che ricorrono (il disco è dedicato «to the victims of abuse»). Ecco, è il contrario di un disco facile, “The Decline of Stupid Fucking Western Civilization”, come chiariscono i primi sei litanianti minuti della title-track, un’agonia di dolore strascicato dalla lentezza della recitazione di Mason e dalla scheletricità dei puntelli chitarristici fino a quando la batteria, scura, e i cori non danno un minimo di sostegno melodico e ritmico al compianto.

Non è un disco facile, questo, perché i pezzi possono durare dodici minuti senza problemi, e comunque mai meno di cinque, per un totale che arriva ai settanta in otto pezzi, il che significa continuata estenuazione, tra il Jeff-Mangum-canta-i-Low di “Pharmacy” e il tarantolismo venato di americana, pieno però di buchi e sospensioni, di “Of Hospitals” (apice). Eppure alcuni momenti più sorvegliati, memori di certa psichedelia anni ’90 (“Stop Walking Start Swimming”) o persino dei primi Radiohead dagli accordi in minore e dalle impennate rumorose (“Eulogy”), mostrano che Mason, se non andasse sempre a zonzo come una specie di sonnambulo, azzeccherebbe pezzi nient’affatto male, da cantastorie del surreale (“Evidence”).

Più un pretesto per riscoprire il Jordaan Mason precedente che un’occasione per ascoltare un disco notevole. Comunque, qualcosa. E con il titolo più bello dell’anno.

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