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R Recensione

6/10

Kashmir

Trespassers

«I Kashmir chi??» «Beh, quelli al cui ultimo album avevano collaborato David Bowie e Lou Reed, loro estimatori di vecchia data» «No, no, no, rifacciamo: i Kashmir chi??».

Non sono molto noti alle nostre latitudini, i Kashmir. Danesi (tanto per cambiare), attivi dal 1991, cinque dischi alle spalle, sono però assai stimati nel nord musicale del mondo, soprattutto dopo quel piccolo capolavoro che fu “Zitilites” (2003): un disco su cui molti appassionati dei primi Radiohead (quelli di “The Bends” in particolare) concentrarono negli anni zero la propria nostalgia. Ne nacque un certo rumore, tanto che pure le star di cui sopra si avvicinarono al quartetto danese guidato da Kasper Eistrup, offrendo la propria collaborazione nel successivo “No Balance Palace” (2005). Bowie co-interprete di un brano, Reed recitatore di un altro, e attorno chitarre educate, accordi in minore, arpeggi rabbuiati, melodie pop penetranti, una voce intensa, testi decisamente sopra la media. Ma non bastò per sfondare, anzi. Il disco passò distrattamente. La seconda metà degli anni zero, quella nostalgia radioheadiana, l’aveva già assorbita.

Trespassers”, sesto studio-album della band, senza neppure il trampolino di ospitate eccellenti, non lascerà segno alcuno: il suo titolo definisce i Kashmir di oggi, e su questo pure loro sembrano avere messo il cuore in pace. Ma rimane, oltre che un disco onesto (per quanto molto al di sotto dei loro picchi), un buon punto di partenza per approfondire la conoscenza di questi Carneadi dell’alt-rock. I tratti comuni dei dieci pezzi continuano a essere un’eleganza pulitissima nella produzione, patterns acustici lavorati da decorazioni leggere di elettrica (i Coldplay di “Parachutes”, certi Travis, i Muse di “Showbiz” per l’umore spesso introverso-nervoso; per la Danimarca Saybia e Grand Avenue), timide incursioni di tastiera, un’energia rappresa, la ricerca della melodia da ricordare. Proprio quest’ultimo punto fa la differenza (in negativo) rispetto al passato: se qualche movimento funziona (“Mouthful Of Wasps”, “Still Boy”), la maggior parte dei brani sembra dibattersi senza molto discernimento, cercando una soluzione o uno sfogo melodico che non arrivano – o che arrivano deludendo.

C’è la strada del crescendo febbrile (“Mantaray”), del romanticismo (“Bewildered In The City”, che pure ha sprazzi di classe), della ruvidità (“Pursuit Of Misery”), mentre langue l’elemento arty che, anche se solo accennato, ha reso i pezzi migliori dei Kashmir più coraggiosi e intelligenti della media pop rock mainstream (penso a una "The Aftermath" o a una "Surfing The Warm Industry"). Il citazionismo radioheadiano, come nell’incipit molto “Paranoid Android” di “Time Has Deserted Us”, tocca corde sopite, mentre ad emozionare sempre sono la voce di Eistrup (Thom Yorke, sì, ma con più struttura) e alcuni arabeschi armonici incupiti (“The Indian”: eccellenti scrittura e arrangiamento d’archi).

Non hanno pubblicato un brutto disco, i Kashmir. A chi li ignorava, “Trespassers” potrà sembrare un più che onesto album di rock radiofonico, magari solo un po’ penalizzato da una produzione troppo ‘piallante’. Per chi li seguiva già, è la conferma di una parabola discendente non verticale, ma di certo progressiva, che ha traghettato i Kashmir in un decennio di ‘weird’ e ‘freak’ e ‘psych’ in cui sembrano dei fini ma disorientati corpi estranei.

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Roberto Maniglio alle 12:49 del 13 marzo 2010 ha scritto:

Caro Francesco, io i kashmir li ho seguiti bene per un pò di tempo: i primi 2 album (Travelogue e Cruzential) li ho trovati di basso livello, il terzo (The good life) mediocre; condivido che Zitilities era però discreto ma poi No Balance Palace era di nuovo inferiore. Ora mi manca questo, ma a quanto dici, non promette bene. Per il voto ripasso dopo che l'ho ascoltato. Ma grazie per la dritta e complimenti per la recensione, come sempre..