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R Recensione

6/10

Nick Cave and the Bad Seeds

Push The Sky Away

Non che ci sia mai saltato in mente di paragonarci, noi di SdM, al mitico “Re Inchiostro” e ai suoi longevi e fruttiferi “Semi del Male”, ma all’ottava recensione in pochi anni (quinta per il sottoscritto) con al centro lo stesso protagonista o alter ego (Grinderman), fra classici e nuove uscite, rischiamo di essere accomunati in un destino simile sebbene profondamente impari. Quello di rimanere a corto di argomenti. Per quanto uno possa essere bravo con la musica e con le parole – e stiamo parlando di Cave, ovviamente – alla fine può succedere. Ad un certo punto si ha come la sensazione, non tanto di non avere più nulla da dire, quanto di girarci attorno, di ripetere sempre la stesse cose, gli stessi aggettivi, le stesse definizioni, gli stessi temi e le stesse sonorità. Può succedere, ed è anche comprensibile, quando un’artista ha una trentina d’anni di carriera alle spalle o quando ci si ritrova, ogni volta, a parlare di lui, del suo ultimo lavoro. Non è un caso e nemmeno una novità, d’altronde, ma una logica inesorabile. Verso la fine degli anni 90, infatti, Cave ha risolto la storica dicotomia musicale che ha segnato le prime due fasi della sua carriera, quella cioè fra mistico bardo cantautorale e feroce urlatore post punk-blues, semplicemente alternandole da un disco all'altro: ora l’una, ora l’altra. Ed ecco allora i Grinderman che assomigliano, talvolta, ai vecchi Bad Seeds e i nuovi Bad Seeds che sembrano (e in parte sono) i Grinderman ma con le chitarre in sordina, il piano e la voce in soliloquio.

Arrivando così, in un continuo e indistinto rimescolio di carte fra vecchio e nuovo, all'ultimo capitolo della saga: “Push The Sky Away”. Con Ellis, Casey e Sclavunos, presenze fisse in entrambe le incarnazioni del Nostro, i sempre più defilati Conway e Wydler, l’assenza ormai definitiva di Harvey e - è notizia recente - il ritorno del grande Barry Adamson (che comunque non ha preso parte alla realizzazione dell’album). Tutto cambia e niente cambia, insomma. E, in ossequio alla poetica dell’alternanza, se il precedente “Dig, Lazarus, Dig!!!” era un album groovy e fisico, questo nuovo non poteva che essere spartano e minimalista, crepuscolare e chiaroscurale, un po’ sulla scia di “Boatman’s Call” e “No More Shall We Part”, anche se meno solenne e più elegiaco. Con un senso di dissoluzione e disfacimento che trapela chiaramente da brani come “Jubilee Street” (decadenza noir e sensi di colpa come in un romanzo di David Peace) o nel suicidio/rinascita fra le onde dell’oceano ispirato dalla coppia di “Wide Lovely Eyes”. Un senso di stanchezza e di nostalgia che si riflette, in modo non sempre positivo, anche sulla scrittura, pure dignitosa, con due o tre brani sopra la media, ma senza veri colpi d’ala.

I pregi maggiori di “Push The Sky Away”, in breve, risiedono nel trittico composto dall’iniziale “We No Who U R” (e se anche il poeta si mette a scrivere titoli tipo sms, dev’essere proprio un segno dei tempi) con la ritmica appena punteggiata, sospesa, gli azzeccati refoli di flauto negli interstizi e l’inciso soffice a due voci, dalla già citata “Jubilee Street” e dalla dilatata, ruvida e poemica “Higgs Boson Blues”, viaggio quasi dantesco (ma in auto, filari di alberi fiammeggianti ai due lati della strada) nel mondo assurdo e capovolto dell’antimateria, dove dio e il diavolo forse sono la stessa cosa. E ben poco altro da segnalare, a paragone dell’imponente opera omnia di un  autore del livello di Cave: “Water’s Edge” a tratti riecheggia il gotico sudista di capolavori come “Tupelo”, ma stemperato dal piano e dagli archi, la languida ed estatica “Mermaids”, sirene che ritornano anche in “Wide Lovely Eyes” illuminate almeno da un verso struggente degno dei suoi (“They’ve hung the mermaids from the streetlights by their hair”) e “We Real Cool” tormentata dal basso limaccioso e dalla ritmica spezzata.

Un ritorno essenziale e un po’ sottotono, nel quale, come vi abbiamo anticipato, il rischio di ripetersi e di annoiare è sempre dietro l’angolo. Sia per il Maestro che per il (più modesto) recensore.

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Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 13 voti.
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bargeld 7,5/10

C Commenti

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nebraska82 (ha votato 5,5 questo disco) alle 13:55 del 21 febbraio 2013 ha scritto:

un lavoro un po' opaco per me, per dire quello di cohen l'anno scorso si muoveva su terreni simili ma con molta più ispirazione e freschezza. bella la recensione.

alfredjarry (ha votato 7 questo disco) alle 16:09 del 10 marzo 2013 ha scritto:

Il miglior Nick Cave dai tempi di “No More Shall We Part”. Punk, sciamano, predicatore, infine sommo interprete di quella 'sadness' che comparve la prima volta sul finire degli anni Sessanta, capace a tratti di superare i suoi stessi maestri. Nonostante le perdite importanti e gli inevitabili cambiamenti, l’autore ha qui scelto incondizionatamente il percorso artistico a scapito delle necessità commerciali... Nessun cedimento di scrittura, almeno quattro classici istantanei del suo repertorio.

NathanAdler77 (ha votato 7 questo disco) alle 15:20 del 19 marzo 2013 ha scritto:

Lavoro compatto e notturno di inaspettata ruvidezza sentimentale, quasi a chiudere una trilogia ideale con "The Boatman's Call" e "No More Shall We Part". La zampata del fuoriclasse marchia a fuoco pezzi come "Jubilee Street", "Water's Edge", "Higgs Boson Blues" e l'atmosferica titletrack in dissolvenza. Un bel passo in avanti rispetto all'atteggiamento sterile e furbetto di "Dig, Lazarus, Dig!!!"

bill_carson (ha votato 6,5 questo disco) alle 22:26 del 19 marzo 2013 ha scritto:

secondo me è un disco non meno furbo del precedente, ma a differenza di quello ha un sound ammaliante.

FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 10:22 del 25 maggio 2013 ha scritto:

Sono decisamente di parte in quanto potrei scrivere parole buone anche per Cave che canta sotto la doccia, ma questo lavoro a me sembra messo a fuoco discretamente, pur senza picchi particolari. Il problema, ciò che crea qualche imbarazzo, è il paragone con l'ingombrante passato: se Cave fosse un pischello, e se non fossimo già saturi, forse lo apprezzeremmo ancora un filo di più. Io comunque assegno un bel 7.