Nick Cave and the Bad Seeds
Push The Sky Away
Non che ci sia mai saltato in mente di paragonarci, noi di SdM, al mitico Re Inchiostro e ai suoi longevi e fruttiferi Semi del Male, ma allottava recensione in pochi anni (quinta per il sottoscritto) con al centro lo stesso protagonista o alter ego (Grinderman), fra classici e nuove uscite, rischiamo di essere accomunati in un destino simile sebbene profondamente impari. Quello di rimanere a corto di argomenti. Per quanto uno possa essere bravo con la musica e con le parole e stiamo parlando di Cave, ovviamente alla fine può succedere. Ad un certo punto si ha come la sensazione, non tanto di non avere più nulla da dire, quanto di girarci attorno, di ripetere sempre la stesse cose, gli stessi aggettivi, le stesse definizioni, gli stessi temi e le stesse sonorità. Può succedere, ed è anche comprensibile, quando unartista ha una trentina danni di carriera alle spalle o quando ci si ritrova, ogni volta, a parlare di lui, del suo ultimo lavoro. Non è un caso e nemmeno una novità, daltronde, ma una logica inesorabile. Verso la fine degli anni 90, infatti, Cave ha risolto la storica dicotomia musicale che ha segnato le prime due fasi della sua carriera, quella cioè fra mistico bardo cantautorale e feroce urlatore post punk-blues, semplicemente alternandole da un disco all'altro: ora luna, ora laltra. Ed ecco allora i Grinderman che assomigliano, talvolta, ai vecchi Bad Seeds e i nuovi Bad Seeds che sembrano (e in parte sono) i Grinderman ma con le chitarre in sordina, il piano e la voce in soliloquio.
Arrivando così, in un continuo e indistinto rimescolio di carte fra vecchio e nuovo, all'ultimo capitolo della saga: Push The Sky Away. Con Ellis, Casey e Sclavunos, presenze fisse in entrambe le incarnazioni del Nostro, i sempre più defilati Conway e Wydler, lassenza ormai definitiva di Harvey e - è notizia recente - il ritorno del grande Barry Adamson (che comunque non ha preso parte alla realizzazione dellalbum). Tutto cambia e niente cambia, insomma. E, in ossequio alla poetica dellalternanza, se il precedente Dig, Lazarus, Dig!!! era un album groovy e fisico, questo nuovo non poteva che essere spartano e minimalista, crepuscolare e chiaroscurale, un po sulla scia di Boatmans Call e No More Shall We Part, anche se meno solenne e più elegiaco. Con un senso di dissoluzione e disfacimento che trapela chiaramente da brani come Jubilee Street (decadenza noir e sensi di colpa come in un romanzo di David Peace) o nel suicidio/rinascita fra le onde delloceano ispirato dalla coppia di Wide Lovely Eyes. Un senso di stanchezza e di nostalgia che si riflette, in modo non sempre positivo, anche sulla scrittura, pure dignitosa, con due o tre brani sopra la media, ma senza veri colpi dala.
I pregi maggiori di Push The Sky Away, in breve, risiedono nel trittico composto dalliniziale We No Who U R (e se anche il poeta si mette a scrivere titoli tipo sms, devessere proprio un segno dei tempi) con la ritmica appena punteggiata, sospesa, gli azzeccati refoli di flauto negli interstizi e linciso soffice a due voci, dalla già citata Jubilee Street e dalla dilatata, ruvida e poemica Higgs Boson Blues, viaggio quasi dantesco (ma in auto, filari di alberi fiammeggianti ai due lati della strada) nel mondo assurdo e capovolto dellantimateria, dove dio e il diavolo forse sono la stessa cosa. E ben poco altro da segnalare, a paragone dellimponente opera omnia di un autore del livello di Cave: Waters Edge a tratti riecheggia il gotico sudista di capolavori come Tupelo, ma stemperato dal piano e dagli archi, la languida ed estatica Mermaids, sirene che ritornano anche in Wide Lovely Eyes illuminate almeno da un verso struggente degno dei suoi (Theyve hung the mermaids from the streetlights by their hair) e We Real Cool tormentata dal basso limaccioso e dalla ritmica spezzata.
Un ritorno essenziale e un po sottotono, nel quale, come vi abbiamo anticipato, il rischio di ripetersi e di annoiare è sempre dietro langolo. Sia per il Maestro che per il (più modesto) recensore.
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