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R Recensione

8/10

PJ Harvey

Let England Shake

And I/ And I can't stop shaking/ My hands won't stop shaking/ My arms won't stop shaking/ My mind won't stop shaking/ I want to go home/ Please let me go home/ Go home

da “Butcher’s Tale (Western Front 1914)”, The Zombies, 1967  

L’Inghilterra trema. Di rabbia e di sdegno, dal profondo delle sue nobili e antiche fondamenta democratiche. Parola di PJ. Sarà perché uno dei suoi leader più amati, l’oramai bolso e ingrigito fondatore del New Labour, viene trascinato di fronte ad una commissione d’inchiesta con l’accusa di avere, nel migliore dei casi, nascosto al parlamento prove essenziali per l’approvazione della risoluzione di guerra contro l’Iraq? O perché i familiari dei soldati rimasti uccisi nel deserto, tutt’altro che rasserenati dalla sua deposizione, lo vedrebbero bene a L’Aja, piuttosto, a rispondere di crimini contro l’umanità? O forse perché la sinistra britannica ha barattato quel po’ di dignità che ancora la contraddistingueva per un posto al sole nel nuovo impero coloniale lastricato dai loro ex coloni? Perché lo stendardo bruciacchiato della Union Jack sventola poco onorevolmente su una collina di sabbia, sopra un lago di sangue e di petrolio?

Forse aveva in mente tutto questo, PJ, mentre preparava il suo concept sulla guerra come desolazione universale, pandemia del terrore e della follia del genere umano. O forse no. Bisognerebbe chiederlo a lei. Certo il tema prescelto non è nuovo, né particolarmente originale.

A fare la differenza è il modo in cui PJ approccia il suo “war album”, nello stesso modo in cui Samuel Fuller o Terrence Malick hanno girato film di guerra, Fenoglio o Hemingway ne hanno scritto. Come un travaglio intimo e doloroso, una devastazione totalizzante riflessa negli occhi e nella psiche dei sopravissuti. E, cosa più importante, senza un alcun alto intento predicatorio né basso artificio retorico. Da weilliana “Soldier’s Wife”, canzone che le calzava (e cantava) a pennello.

Con Let England Shake la Harvey realizza una sintesi mirabile dei suoi due predecessori: la classicità spiritistica e vittoriana di White Chalk filtra per osmosi fra gli spigoli dissonanti e le sonorità promiscue di A Woman A Man Walked By. Fondamentale nel dare continuità il contributo di John Parish: lì co-autore, qui co-produttore , oltreché musicista in una formazione volutamente ridotta all’essenziale che comprende l’ex Bad Seed Mick Harvey e il batterista Jean-Marc Butty. Un disco diretto e memorabile (solo in un paio di casi i brani eccedono i tre minuti), nel complesso intarsio del suo labor limae, questo Let England Shake. PJ, in stato di grazia, sa variare registri armonici e vocali con disinvolta eccentricità, scrive canzoni che non sembrano più tali eppure lo sono, regala scorci sonici di una bellezza cupa e brumosa. Sa mescolare con maestria epica, elegia e straniamento.

Così nella title-track trasforma una ballata tradizionale in una danse macabre quasi brechtiana.

Marcia per la pace accompagnata da tamburi marziali e tromboni sgranati, come una madre coraggio fra le nebbie e le macerie del proprio passato (“fog rolling down behind the mountains/ and on the graveyards and dead sea-captains”), nella splendida The Last Living Rose. S’arrampica sui saliscendi corali e bandistici, quasi canadesi, di All And Everyone; trova un miracoloso equilibrio fra acustiche sferzate retro-punk e melismi ottocenteschi in On Battleship Hill, prima di farsi straziante, strozzata dalla commozione, in due gioielli come l’antica, edoardiana, England, fra trenodia e salmodia, e la moderna In The Dark Places. Poi risorge sulle ceneri della propria nazione, lasciando intravedere un barlume di speranza nella celtica The Colour Of The Earth. E fra auto-harp, tamburi e pianoforti sa incastonare il bizarre dinoccolato e insinuante di The Words That Make The Murder, ricca di antifonie e ironiche citazioni di canzoni anni ’60 (“What if take my problems to the United Nations?” si chiede PJ, scimmiottando Eddie Cochran in Summertime Blues. La risposta è: niente, probabilmente faresti la fine della Birmania o del Darfour), beccheggia nell’amniosi krauta di The Glorious Land, compendia psichedelia sintetica, vestigia soul e sample reggae in un pezzo quasi degno dei Primal Scream come Written On The Forehead

Una PJ allo zenith della maturità ci regala uno dei dischi più belli di questo inizio decennio. E buon Bloody San Valentino a tutti.

C Commenti

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tramblogy alle 19:13 del 20 febbraio 2011 ha scritto:

stupendo.

gull (ha votato 8 questo disco) alle 23:39 del 20 febbraio 2011 ha scritto:

Caspita, da un primo sommario ascolto sembra davvero in forma smagliante!

tramblogy alle 20:48 del 22 febbraio 2011 ha scritto:

disco più bello degli ultimi 30 anni!!!

NathanAdler77 (ha votato 8 questo disco) alle 22:33 del 25 febbraio 2011 ha scritto:

What is the glorious fruit of our land?

"The Glorious Land" e "The Words That Maketh Murder" mi ricordano il baroque-folk di "Hunky Dory" (pensate un po')...Gran bel ritorno di Polly, novella cantastorie in tempi di guerra. "Hanging In The Wire" (memore dei fantasmi di "White Chalk") e "The Colour Of The Earth" stupende.

modulo_c (ha votato 8 questo disco) alle 14:52 del 5 marzo 2011 ha scritto:

brava

bello, oscuro ma non troppo. Certo lei e' in gran forma.

folktronic alle 9:46 del 6 marzo 2011 ha scritto:

great !!

Per ora il mio disco preferito dell' anno....PJ Harvey e' tornata.

Truffautwins (ha votato 10 questo disco) alle 3:31 del 19 marzo 2011 ha scritto:

Disco enorme (almeno 1 metro)

Quando diranno: "sai quel classico degli anni '10"

Utente non più registrato alle 11:03 del 19 marzo 2011 ha scritto:

Ottimo lavoro, per me il suo migliore dai tempi di "To bring you my love".

casadivetro (ha votato 10 questo disco) alle 3:36 del 23 marzo 2011 ha scritto:

Perfetta sintesi delle enormi capacità compositive di Polly Jean.

FeR (ha votato 2 questo disco) alle 8:30 del 25 marzo 2011 ha scritto:

Sono riuscito a sopportarla solo con "White Chalk", ma a quanto pare è tornata a essere la vecchia PJ. Mi stia bene, signora.

ozzy(d) (ha votato 9 questo disco) alle 14:00 del 25 marzo 2011 ha scritto:

meno male che ha abbondonato le sonorità di quella melassa di white chalk, mi chiedo come potesse piacere in quella veste da sciura vittoriana frigida. brava PJ, cosi ti vogliamo, selvaggia e sensuale.

ROX (ha votato 7 questo disco) alle 16:50 del 25 marzo 2011 ha scritto:

io non trovo questa radicale differenza tra White Chalk e questo disco... cmq mi piacciono entrambi, con una preferenza maggiore per White Chalk

george (ha votato 9 questo disco) alle 11:43 del 27 marzo 2011 ha scritto:

lei ha lo sgurz

Roberto (ha votato 9 questo disco) alle 18:52 del 13 aprile 2011 ha scritto:

Opera di un' intensità emotiva travolgente e priva di cedimenti. Superlativa.

maxcoro (ha votato 9 questo disco) alle 0:21 del 18 maggio 2011 ha scritto:

album molto bello.

continua la sua evoluzione vocale (che cambiamento dall'insuperabile to bring you my love).

voto 8

REBBY (ha votato 8 questo disco) alle 8:30 del 13 giugno 2011 ha scritto:

Si può dire dai: l'opera migliore della maturità di PJ, degna di stare al fianco, senza timori reverenziali, a quelle della sua gioventù. Tra i migliori dell'anno, non ci piove (azz...sta piovendo da due settimane! eheh).

raskolnikov (ha votato 8 questo disco) alle 9:50 del 26 luglio 2011 ha scritto:

Mi aveva deluso P.J da un lontano concerto di una decina di anni fa, davvero pessimo e poi i dischi fatti, tutti lontani parenti dei meravigliosi primissimi.... e poi assolutamente inaspettato questo bellisimo album con carattere, un sound un po' retro' l'inzio è davvero grandissimo dovrei avere più tempo per ascoltarlo con calma

valvonauta (ha votato 9 questo disco) alle 19:33 del 30 settembre 2011 ha scritto:

balla analisi.. è un disco che non va preso canzone per canzone ma nel suo insieme. per chi volesse su indietranslations.com sono disponibili le traduzioni

stefabeca666 (ha votato 8 questo disco) alle 20:00 del 30 settembre 2011 ha scritto:

Disse Pj Harvey a proposito delle sue canzoni: "Mi sembra stupido, perché non sono poesie, non vanno lette." Comunque, per ora, assieme ad altri due, disco dell'anno.

rdegioann452 (ha votato 10 questo disco) alle 22:04 del 30 settembre 2011 ha scritto:

gli altri due??

stefabeca666 (ha votato 8 questo disco) alle 9:19 del primo ottobre 2011 ha scritto:

James Blake e Rome di Danger Mouse & Daniele Luppi, magnifico.

fabfabfab alle 9:23 del primo ottobre 2011 ha scritto:

RE: Danger Mouse & Daniele Luppi

e votalo no, che sta ingiustamente scivolando nelle retrovie ...

bargeld (ha votato 8 questo disco) alle 9:50 del primo ottobre 2011 ha scritto:

Io intanto voto questo, che mi era rimasto indietro. Come ha già detto qualcuno, il più bello dai tempi di To Bring You My Love. Quando maturare non fa rima con smettere di cercare. Artista gigantesca.

stefabeca666 (ha votato 8 questo disco) alle 12:52 del primo ottobre 2011 ha scritto:

Mi dice che ho già votato questo disco, pure se non compaiono le stellette. Io sinceramente non ricordo.

target alle 13:03 del primo ottobre 2011 ha scritto:

Clicca sulle stellette accanto al titolo del disco. Il tuo voto ( c'è!

stefabeca666 (ha votato 8 questo disco) alle 20:20 del primo ottobre 2011 ha scritto:

Daje, effetto memoria mode off.

countryjoe (ha votato 3 questo disco) alle 22:56 del 20 ottobre 2011 ha scritto:

Pedante

Suicida (ha votato 6 questo disco) alle 23:41 del 20 ottobre 2011 ha scritto:

Poco originale sia nei contenuti che nella composizione. Tre anni per concepire un disco così mediocre sono veramente sprecati. Sopravvalutato.

lev (ha votato 8 questo disco) alle 18:39 del 11 dicembre 2011 ha scritto:

entusiasmante

lev (ha votato 8 questo disco) alle 18:42 del 11 dicembre 2011 ha scritto:

è il primo disco che ascolto di pj harvey. con calma approffondirò.