PJ Harvey
Let England Shake
And I/ And I can't stop shaking/ My hands won't stop shaking/ My arms won't stop shaking/ My mind won't stop shaking/ I want to go home/ Please let me go home/ Go home
da “Butcher’s Tale (Western Front 1914)”, The Zombies, 1967
L’Inghilterra trema. Di rabbia e di sdegno, dal profondo delle sue nobili e antiche fondamenta democratiche. Parola di PJ. Sarà perché uno dei suoi leader più amati, l’oramai bolso e ingrigito fondatore del New Labour, viene trascinato di fronte ad una commissione d’inchiesta con l’accusa di avere, nel migliore dei casi, nascosto al parlamento prove essenziali per l’approvazione della risoluzione di guerra contro l’Iraq? O perché i familiari dei soldati rimasti uccisi nel deserto, tutt’altro che rasserenati dalla sua deposizione, lo vedrebbero bene a L’Aja, piuttosto, a rispondere di crimini contro l’umanità? O forse perché la sinistra britannica ha barattato quel po’ di dignità che ancora la contraddistingueva per un posto al sole nel nuovo impero coloniale lastricato dai loro ex coloni? Perché lo stendardo bruciacchiato della Union Jack sventola poco onorevolmente su una collina di sabbia, sopra un lago di sangue e di petrolio?
Forse aveva in mente tutto questo, PJ, mentre preparava il suo concept sulla guerra come desolazione universale, pandemia del terrore e della follia del genere umano. O forse no. Bisognerebbe chiederlo a lei. Certo il tema prescelto non è nuovo, né particolarmente originale.
A fare la differenza è il modo in cui PJ approccia il suo “war album”, nello stesso modo in cui Samuel Fuller o Terrence Malick hanno girato film di guerra, Fenoglio o Hemingway ne hanno scritto. Come un travaglio intimo e doloroso, una devastazione totalizzante riflessa negli occhi e nella psiche dei sopravissuti. E, cosa più importante, senza un alcun alto intento predicatorio né basso artificio retorico. Da weilliana “Soldier’s Wife”, canzone che le calzava (e cantava) a pennello.
Con Let England Shake la Harvey realizza una sintesi mirabile dei suoi due predecessori: la classicità spiritistica e vittoriana di White Chalk filtra per osmosi fra gli spigoli dissonanti e le sonorità promiscue di A Woman A Man Walked By. Fondamentale nel dare continuità il contributo di John Parish: lì co-autore, qui co-produttore , oltreché musicista in una formazione volutamente ridotta all’essenziale che comprende l’ex Bad Seed Mick Harvey e il batterista Jean-Marc Butty. Un disco diretto e memorabile (solo in un paio di casi i brani eccedono i tre minuti), nel complesso intarsio del suo labor limae, questo Let England Shake. PJ, in stato di grazia, sa variare registri armonici e vocali con disinvolta eccentricità, scrive canzoni che non sembrano più tali eppure lo sono, regala scorci sonici di una bellezza cupa e brumosa. Sa mescolare con maestria epica, elegia e straniamento.
Così nella title-track trasforma una ballata tradizionale in una danse macabre quasi brechtiana.
Marcia per la pace accompagnata da tamburi marziali e tromboni sgranati, come una madre coraggio fra le nebbie e le macerie del proprio passato (“fog rolling down behind the mountains/ and on the graveyards and dead sea-captains”), nella splendida The Last Living Rose. S’arrampica sui saliscendi corali e bandistici, quasi canadesi, di All And Everyone; trova un miracoloso equilibrio fra acustiche sferzate retro-punk e melismi ottocenteschi in On Battleship Hill, prima di farsi straziante, strozzata dalla commozione, in due gioielli come l’antica, edoardiana, England, fra trenodia e salmodia, e la moderna In The Dark Places. Poi risorge sulle ceneri della propria nazione, lasciando intravedere un barlume di speranza nella celtica The Colour Of The Earth. E fra auto-harp, tamburi e pianoforti sa incastonare il bizarre dinoccolato e insinuante di The Words That Make The Murder, ricca di antifonie e ironiche citazioni di canzoni anni ’60 (“What if take my problems to the United Nations?” si chiede PJ, scimmiottando Eddie Cochran in Summertime Blues. La risposta è: niente, probabilmente faresti la fine della Birmania o del Darfour), beccheggia nell’amniosi krauta di The Glorious Land, compendia psichedelia sintetica, vestigia soul e sample reggae in un pezzo quasi degno dei Primal Scream come Written On The Forehead.
Una PJ allo zenith della maturità ci regala uno dei dischi più belli di questo inizio decennio. E buon Bloody San Valentino a tutti.
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