R.e.m.
Accelerate
Quattro anni dopo il flaccido e amorfo “Around the Sun”, i R.E.M. tornano in pista con “Accelerate”. Fin dal titolo è manifesta l’intenzione della band georgiana di lasciarsi alle spalle le lagne e le ambiguità del recente passato. Bersaglio centrato: l’ultima fatica di Fregoli Stipe e soci rispolvera il tiro dei giorni migliori ( il grintoso psych folk rock di “Life’s rich pageant” del 1986 sembra essere il faro) ma con il passo e la malizia giusti per non farlo sembrare un mero déjà vu. Un deciso ritorno in quota che, pur senza ovviamente lambire le vette espressive delle scorse decadi, riconferma il terzetto di Athens come uno dei nomi più affidabili per il carrozzone mainstream. Il tutto in appena 34 minuti di musica.
Chiarisce subito gli intenti lo slancio adrenalinico della traccia di apertura, “Living well is the best revenge”, manifesto ideale di questo ritorno al rock diretto e senza fronzoli: una sezione ritmica nervosamente frammentata, i coretti sixites di Mike Mills, i gorgheggi di Michael Stipe e la chitarra elettrica di Peter Buck al vetriolo come ai bei tempi. Queste ritrovate e rilucenti fibre rock brillano in altri episodi quali il grezzo garage di “Man sized wreath”, il break incalzante di “Hollow man” e il magnetismo power-pop dal sapore byrdsiano del singolo “Supernatural superserious”. Ottima è poi la title-track, dall’andamento spedito delle loro migliori cavalcate jingle-jangle, per poi cambiare marcia e scaricare il proprio bridge come la pistola di un Western. Peccato soltanto che la qualità di questo ritorno a formule briose sia inficiata dal vigore convenzionale di “Horse to Water” (in parte riscattata da un refrain azzeccato) e dal dozzinale epilogo “I’m gonna DJ”, rumoroso scarto del disco precedente che avrebbe fatto miglior figura in soffitta.
La latente passione del gruppo per la ballata tradizionale, con la voce e i testi evocativi di Stipe a condurre le danze, non è ovviamente dimenticata. I cioccolatini letali per i diabetici delle “Leaving New York” o “Make it all Ok” del disco precedente sono deo gratias lontani anni luce, a parte la statica e inconcludente “Mr. Richards”. Buck sembra regalare un sequel della preistorica “Swan Swan H” su “Until the day is done”, avvolta com’è dentro la consueta languidezza folk mentre la dolcezza lisergica di “Sing for the submarine” evoca gli spettri anni 80 di “Oddfellows local 151” e “I remember California”. Convincono anche gli intensi due minuti di “Houston”, guidati da un organo maligno che innesca un crescendo nervoso ed insinuante, con Stipe che ritrova per incanto la vis polemica di album politici come “Life’s rich pageant” o “Green”. Ancora vecchie strade, dunque? Sì, ma non di vicolo cieco si tratta. Casomai di riconquista.
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