Radiohead
In Rainbows
Alla fine ci siamo. 10 ottobre 2007 e potete star certi che questa è una data che non si dimenticherà facilmente. Esce In Rainbows, nuovo disco dei Radiohead a quattro anni di distanza da Hail to the Thief. È vero in mezzo c’è stato The Eraser di Thom Yorke ma il progetto solista non sembra niente di paragonabile ai progetti collettivi del gruppo. La curiosità, l’attesa, il tremore per il disco più atteso dell’anno si sciolgono finalmente in maniera inattesa: con un click di mouse. I Radiohead offrono il disco in download dal proprio sito al prezzo che il consumatore ritiene opportuno. Chi vorrà avere il supporto materiale può prenotare un enorme pacco comprendente due cd e due dischi in vinile dell’opera (comprendente quindi diversi out-takes non compresi nel download). Se non è una rivoluzione poco ci manca. Questa recensione affronta il disco scaricato che comprende i dieci brani ufficiali che vanno a comporre In Rainbows. E allora nonostante ci sarebbe da fare un discorso enorme su questa mossa (suicidio o avanguardia?) ci limiteremo qui a parlare della musica, lasciando ad altre sedi il compito di affrontare la questione distributiva-commerciale dell’opera.
Con Hail to the thief ci si cominciava a chiedere dove volessero andare a parare i Radiohead con un disco incantevole e ben curato ma nettamente meno ambizioso e innovativo dei tre capolavori precedenti Ok Computer, Kid A e Amnesiac. Sembrava un disco di passaggio Hail to the thief, un compromesso tutto sommato accettabile tra i diversi periodi percorsi dal gruppo. Poteva sembrare quasi una dichiarazione di resa, un alzare la bandiera bianca e confessare di non sapere più dove andare a sbattere la testa. E invece dopo quattro anni di attesa infinita esce finalmente il settimo lp del gruppo. E tutto diventa più chiaro.
Tutto diventa più chiaro perché In Rainbows come Hail to the thief non inventa nulla, né tantomeno opera l’ennesima svolta verso nuovi orizzonti sonori. In Rainbows ha però l’incredibile capacità di suonare fin dai primi ascolti come un classico. O come musica classica.
Musica classica del nuovo millennio ovviamente, filtrata da mezzo secolo di rock, pop e elettronica e da una ricerca sonora collettiva che ha portato il gruppo di Oxford a riscrivere le regole della musica del nuovo millennio.
Alla luce di questo In Rainbows anche Hail to the thief sembra acquistare un senso maggiore. Entrambi gli album infatti non sono altro che una perlustrazione più approfondita di territori finora toccati solo marginalmente. Insomma se è vero che con la triade storica Ok Computer-Kid A-Amnesiac i Radiohead hanno rivoltato le convenzioni musicali come un calzino ora sembra che il gruppo voglia raccogliere i frutti cresciuti dai semi sparsi in un lustro straripante dal punto di vista creativo. Il che non vuole certo dire che il gruppo si sia seduto. Sembra invece che dopo aver rinnovato la stessa estetica musicale con un linguaggio tutto nuovo Yorke e soci vogliano ora esplorare fino in fondo le potenzialità offerte dalle passate scoperte. Insomma dopo i gustosi antipasti e assaggi ecco a voi le pietanze. Ovviamente sublimi, fin dall’iniziale 15 step, brano di profonda sensibilità Amnesiac con il suo raffinato uso dell’elettronica. Pensi a un recupero di quelle sonorità e rimani subito spiazzato da Bodysnatchers, il pezzo più rock del disco con il suo riff devastante, potente, ruvido. Chitarre in primo piano (Johnny Greenwood in forma smagliante) come non accadeva dai tempi di Ok Computer e un’andatura complessiva cinetica in cui si stagliano le ansie di Yorke (“I have no idea what I am talking about I'm trapped in this body and can't get out”) e soprattutto un pessimismo esistenziale di fondo che attraversa l’epoca contemporanea (“Has the light gone out for you? Cause the light's gone for me It is the 21st century”) riscattato però da una complessiva violenza sonora che trova il suo apice nel grido finale “I'm alive”, quasi a ricordare che arrendersi non serve a nulla.
Nude inizia intensamente come un brano medulliano di Bjork prima di far entrare in azione il basso di Colin Greenwood e il soul struggente di Thom, straziante nella bellezza sonora con cui condanna amaramente ogni velleità utopistica di cambiare il mondo (“So don't get any big ideas they're not going to happen You'll go to hell for what your dirty mind is thinking”). Sembra già di poter dire che i Radiohead con In Rainbows non vogliano dare risposte ma sollevare dubbi e interrogativi.
Weird fishes/Arpeggi inizia come una splendida poesia d’amore (“In the deepest ocean The bottom of the sea Your eyes They turn me“) ma termina anch’essa con immagini macabre e desolanti ( “I get eaten by the worms [...] I'll hit the bottom Hit the bottom and escape Escare”) musicalmente espresse da un incedere anarchico in cui la batteria va da una parte, il pianoforte da un’altra e il cantato da un’altra ancora. La somma dei fattori crea però un effetto unico: alienante e avvolgente al tempo stesso come un tiepido mantello di seta.
All I need mostra una serie di fantastici arrangiamenti (al limite del ridondante) che vanno ad impreziosire una struggente ballata a prima vista romantica (“You are all I need”), in realtà dichiarante una solitudine sconvolgente (“I'm an animal Trapped in your hot car I am all the days that you choose to ignore […] I'm just an insect trying to get out of the night).
Quasi stupisce lo splendido bozzetto Faust arp, brano che sembra ripescato da una session dei Beatles curata da Phil Spector (ancora una volta splendidi gli archi curati da Greenwood). Reckoner sembra una giungla sonora alla Can ma il cantato in falsetto riporta alla mente gli U2 dei bei tempi mentre il pianoforte che vaga nello spazio nelle sue trame minimali ma diaboliche e astute diventa il vero protagonista di un brano curatissimo nella produzione e sorprendentemente emozionale.
House of cards è forse il momento meno imponente del disco con la sua sinfonia minimale meno incisiva e più impersonale, nonostante l’atmosfera resti ancora profondamente eterea e il testo criptico parli ancora di distruzione emotiva (“I don't want to be your friend I just want to be your lover No matter how it ends No matter how it starti […] Denial, denial Denial, denial Your ears should be burning”).
Jigsaw falling into place è uno dei brani che ricordano di più il precedente Hail to the thief. Yorke sfoggia una voce quasi monotona mentre il ritmo si alza progressivamente a braccetto con la chitarra raffinata di Greenwood.
L’album si chiude con un capolavoro straripante: Videotape è basata su pochi micidiali accordi di pianoforte reiterati magistralmente che colpiscono al cuore nel loro accompagnamento al cantato passionale ed emozionante. Yorke ci regala qui un gioiello cristallino, che per struttura e intensità non può non riportare alla mente la sublime Pyramid Song che sovrastava Amnesiac.
Il cronista però rimane affannato dagli ultimi versi del brano e del disco:
This is my way of saying goodbye
Because I can't do it face to face
I'm talking to you after it's too late
From my videotape
No matter what happens now
You shouldn't be afraid
Because I know today has been the most perfect day I've ever seen.
In Rainbows è un disco stupefacente per compattezza e varietà allo stesso tempo. Più compatto rispetto al troppo frantumato Hail to the thief, ciononostante resta un disco capace di affrontare diversi generi, stili e umori con una semplicità impressionante. I dieci brani finiscono per fondersi in un’unica summa musicale che merita di essere annoverata tra le cose migliori mai compiute dal gruppo. La qualità generale non sembra in effetti sfigurare di fronte ai grandi capolavori storici del passato. Ecco perché il cronista vi lascia con una speranza: che gli ultimi versi di Videotape non siano altro che una burla, una farsa, o un riferimento più simbolico alla vita, e non siano invece il loro messaggio d’addio, come a una lettura superficiale potrebbe sembrare. Dico questo perché non mi stupirei se ora i Radiohead decidessero di sciogliersi. Però ne sarei tremendamente colpito. Perché il giorno in cui i Radiohead si scioglieranno il mondo avrà perso tanta bellezza. Perché oggi è questo quello che sono i Radiohead: bellezza pura. E francamente sentiamo di non poterne più fare a meno.
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