R Recensione

8/10

Scott Weiland

12 Bar Blues

nel bar

non c’è storia

per la bottiglia di birra

in mano all’avventore

fuori

c’è il suono

di ruote che sgommano

nella pioggia

c’è un lampo di

luce.

la risata di qualcuno

(H.C.Bukovsky)

La carriera di certi musicisti è un iceberg capovolto che galleggia in un mare artico di liquore “on the rocks”. Col grosso che emerge alla luce dei riflettori e la punta immersa a parecchie leghe dalla superficie come una gemma sotto formalina. A chi s’illude di conoscere a memoria le gesta di Scott Weiland, l’ascolto di questo disco dimostrerà in modo irrefutabile come certe mie affermazioni di cui sopra non nascano soltanto dai troppi Bloody Mary che butto giù a colazione.

Cantante estremamente dotato, accorato e versatile nell’intimo nonchè front-man dalle sfrontate e calcolate pose glam in pubblico, Weiland rimane, volenti o nolenti, uno dei personaggi più capricciosamente volubili, ambigui ed interessanti fra quelli che, negli anni ’90, hanno affollato il sottile limbo che separa la scena alternativa dal rock commerciale.

Già leader degli Stone Temple Pilots, gruppo mai troppo amato dalla critica (anche se Purple resta un gran disco e guai a chi me lo tocca!) che contribuì con il suo sproporzionato successo a prolungare l’agonia da alta classifica dell’omai esangue grunge di Seattle, egli è ancora oggi occupato a spendere gli ultimi spiccioli di credibilità artistica nei “Tamarro Pistola”, pardon, Velvet Revolver del simpaticissimo Slash.

L’impressione che il turbolento Scott potesse (o potrebbe) dare infinitamente di più alla causa della Musa Euterpe, viene ancor più rafforzata da questo suo primo e finora unico misconosciuto album solista. 12 Bar blues (Atlantic, 1998) finisce per incastonarsi cronologicamente nei meandri di un periodo piuttosto contrastato e deprimente della sua vita (e della sua carriera): fra il deludente Tiny Love (Atlantic, 1996) e il ridicolo No 4 (Atlantic, 1999) dei Pilots, fra il primo arresto per detenzione di sostanze stupefacenti del 1995 e la definitiva condanna ad un anno di carcere nel 1999.

La libertà vigilata e lo spettro di un precoce declino fisico, artistico e sentimentale spingono Scott a rinchiudersi nella cella monastica (si fa per dire) di uno studio di registrazione per dare alla luce, non un banale tentativo di rilanciare le proprie quotazioni sul mercato discografico senza doverne spartire gli utili con i vecchi compagni di viaggio, bensì una raccolta di eleganti e toccanti pagine di autoconfessione, una sorta di manoscritto sonoro che corre il rischio di rimanere un testamento incompiuto, inchiostrato da un talento eclettico e sovversivo, come “Gli ultimi fuochi” per Francis Scott Fitzgerald.

A parte tutto questo, Desperation è una languida ballata elettronica con filtri quasi glitch, frastornati mugolii da doposbornia e un ritornello che preleva una specie di riff “psycho-grunge” e lo fa schiantare al suolo senza preavviso come una putrella d’acciaio dal braccio meccanico di una gru. Barbarella, invece, è già più rappresentativa del caos creativo che si agita nell’emisfero destro di Weiland: l’ouverture pianistica preconizza una sghemba serenata per chitarra acustica e drum machine, il gioco dei glissati sfuma l’interpretazione vocale in un romanticismo carico di rimpianti e chiaroscuri, mentre il ritornello suona come un’invocazione sincera e memorabile. In mezzo c’è persino un break da vaudeville hawaiano per slide e marimbas. About Nothing è un pezzo più triviale, una corazza grunge che rinserra una silhouette contaminata da radioattività “industriali”, in cui il ritornello giunge quasi come una liberazione, una ridanciana citazione fuori contesto. Where’s the man, con la sua intro scheletrica che non c’entra un tubo con il resto, il suo lamento acuto ed accorato, il chorus dolcemente dispersivo e veemente in contrasto con la dimessa ritmica lo- fi, è piuttosto una sorta di personale epigrafe ad un fragile stelo di donna, alla parte femminile che può affiorare, talvolta e senza alcun preavviso, in ognuno di noi.

Con pianoforte e vibrafono, Divider ingerisce un cocktail di lounge anni ’50 e soul jazz amerindo; la smagliante eclissi del cantato ritaglia il pezzo su un fondale onirico, colorato e fuori dal tempo, come la locandina di un film esotico con Ava Gardner. Cool Kiss rimastica conati del sound primigenio degli Stone Temple Pilots (Sex Type Thing o giù di lì), graffiandolo saggiamente grazie alla nuova vena di ironia “chandleriana” di uno Weiland che quando ringhia “Kill me, thrill me, Kill me!” si trova già al crocevia narrativo fra il cupio dissolvi di “La fiamma del peccato” e le farneticazioni dei pervertiti di Trent Reznor.

La chiusura acustica ribadisce l’atmosfera di goliardico disincanto che aleggia sull’opera intera. The Date, dal canto suo, assomiglia a uno space rock dei Galaxie 500, o addirittura degli Hawkwind;la voce vi rimbomba splendida, lontana e distorta, il piano chiazza la superficie melodica di polle tumescenti da cui tracimano rivoli di paradisi artificiali. E quando nel finale digrigna il suo furibondo “I love you!”, Weiland sembra arreso e commosso come il protagonista de “I Masnadieri” di Schiller”.

Son suona come una ballad edipica per tastiere e clavicembalo, sostenuta da scarne percussioni tremolanti e da riverberi psichedelici retrò a là Their satanic majesties request. Jimmy was a simulator si concede un intermezzo industrial futurista piuttosto divertente anche se meno significativo, laddove Lady your roof brings me down allestisce l’atto unico da cabaret mitteleuropeo che non t’aspetti, fra Kurt Weill e Mike PattonL’opera da tre soldi” viene disciolta in un bagno di ansiolitici stile Swinging London che non si fa mancare nemmeno un ritornello filo-beatlesiano.

Il “Sergente Pepper” viene poi messo in riga dal “Maggiore Who” su Mockingbird girl, forse il pezzo più rock presente nell’album, coperto com’è di fuzz e corroborato da un giro che rotola come una frana di macigni fino ad una conclusione “a cappella” quasi nirvaniana. Si chiude con Opposite octave reaction, un altro “garage-grunge” non sgradevole ma neppure memorabile.

Come succedeva in certi racconti di Sherwood Anderson o di William Saroyan (paragone gradito, immagino, soltanto a chi come me ama masturbarsi con effimere metafore para-letterarie), in questo lavoro l’autore sembra voler metterci a disposizione il maggior numero possibile di elementi, stipando in maniera lucidamente caotica suggestioni e stili differenti ma allo stesso tempo derivanti da un comune approccio antifrastico che per certi versi può richiamare alla mente le opere di certi songwriters lo fi tipo Robert Pollard o Beck.

Un interprete al meglio della sua classe per un signor disco e, per vostra fortuna, non mi resta nient’altro da aggiungere.

V Voti

Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 5 voti.
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Vikk 7/10
PehTer 7,5/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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DonJunio (ha votato 8 questo disco) alle 1:09 del 13 aprile 2007 ha scritto:

Dear Scott....

Di gran lunga la cosa migliore mai fatta da Weiland nella sua carriera.....non sono molto d'accordo su "Tiny Music", per me non fu affatto deludente, ma anzi il lavoro più originale degli stone temple pilots, quello meno debitore rispetto ai gruppi di Seattle....de gustibus, bella recensione comunque

Vikk (ha votato 7 questo disco) alle 14:39 del 27 agosto 2007 ha scritto:

carino, ma incostante... i primi 4 album degli Stone Temple Pilots sono ottimi, "Tiny Music" il migliore e piu' originale, "Purple" fantastico e gli altri due davvero buoni anche se troppo debitori nei confronti dei maestri; purtroppo lo hanno reinventato hard rocker nei Velvet Revolver

ThirdEye (ha votato 8 questo disco) alle 0:36 del 20 aprile 2012 ha scritto:

Bello.

Concordo con chi lo considera la cosa migliore di Weiland in tutta la sua carriera. Migliore di qualsiasi altro album degli STP, per me band mooolto modesta (Solo Purple a mio avviso fu ottimo). E pensare che questo gioiellino è stato creato nel periodo forse più nero della sua vita..