Torres
Sprinter
Visto l'affollato panorama di singer-songwriter al femminile emerse o consolidatesi in questo 2015 (diretta emanazione delle cantantesse sfacciate dei '90s e passato non indenne attraverso la fase maledettista post-Anna Calvi), la nashvilliana - ora residente a Brooklyn - Torres ne esce profumata come una rosa. Non solo vanta canzoni mediamente più avvincenti di quelle delle varie Courtney Barnett o Waxahatchee (anche perchè queste ultime si son messe in testa che ispirarsi alla Liz Phair del periodo aureo sia un gioco da ragazze, e per il sottoscritto si sbagliano di grosso), ma grazie all'apporto di collaboratori quali Rob Ellis (anche co-produttore), Ian Oliver e Adrian Utley (Portishead) è riuscita a ravvivarne la paesaggistica, le rifiniture, il senso: tutto ciò che mancava all'esordio omonimo datato 2013, amatoriale a dir poco, pur se ospitava qualche bel pezzo (su tutti Mother Earth, Father God).
Chi ha un minimo di familiarità coi primi due nomi fatti qualche riga addietro, non si stupirà se è alla prima PJ Harvey che Torres ha volto lo sguardo. Si stupirà, forse, di come la Nostra abbia raggiunto un tale livello di padronanza della materia da permettersi di migliorarla, trovando in siffatto processo d'ispezione/restauro la propria voce. Ebbene sì, l'iperbole è fin troppo manifesta: in realtà Mackenzie Scott (questo il vero nome) di suo ci mette parecchio, nondimeno è tra le pieghe di un discorso iniziato proprio con la Harvey che prende vita il torbido dramma di Sprinter.
Strange Hellos mette subito le cose in chiaro: sound irrobustito, elettricità, ritmica incalzante e attenta al dettaglio (d'altronde è di Ellis che stiamo parlando: non proprio un novellino dello strumento). Di pari passo si è fatta più incisiva la scrittura, tanto che è praticamente impossibile non farsi catturare dall'incipit in solitaria (Heather, I'm sorry that your mother's /Diseased in the brain / Cannot recall your name / Heather, I dreamt that I forgave / But that only comes in waves / I hate you all the same) e finire trascinati nel vortice di emozioni sovrapposte che ne consegue.
Se nell'esordio la componente elettronica si riduceva allo striminzito drum programming su due brani (tra i quali l'oscura Chains), ora il sintetizzatore è promosso al ruolo di interlocutore privilegiato per la Fender arpeggiata della Scott. Sono giustappunto i discreti tappeti di tastiere e le escursioni rumoristiche del Moog ad aprire gli spazi nell'altrimenti claustrofobica Title Track, ad arricchire la texture di una ballata percussiva come A Proper Polish Welcome, nonché a preparare il terreno per il ritornello perfetto di The Harshest Light. L'eccentrica Cowboy Guilt è addirittura costruita quasi interamente al synth (ritmica, pulsazioni, fraseggi schizoidi), tanto che gli Young Marble Giants tornano prepotenti alla memoria ed è tutto di guadagnato per Torres, alla faccia di chi la accusa di perpetuare uno stile involuto e/o scarsamente immaginativo.
Ferris Whell e Son You Are No Island sono due facce della stessa medaglia, nonché tra gli apici di un disco che di momenti morti conta solo la finale The Exchange. Insieme, questi due gioiellini rappresentano l'alfa e l'omega, i poli opposti a delimitare il perimetro entro i quali si dispiega lo spettro emozionale del disco. Tanto il primo è malinconicamente arioso, libero, tanto il secondo è ossessivo, costretto in moduli rigidissimi. Tanto uno vola alto in cielo, tra riverberi e delay, quasi una versione spaziale dello slowcore, tanto l'altro sembra sbuffare dagli Inferi, arcipelago dark ambient che la cantilena della Scott (e si parla di più tracce vocali, alcune simil-pitchate, fatte confluire in una sorta di vociona tremolante, sovraumana) attraversa, ciclica, come in un folk apocalittico la cui radice celtica è ben in vista.
Il mio brano preferito resta però New Skin, e non a caso ve l'ho tenuto per ultimo. Trattasi di una delle canzoni-simbolo (immagino già i facepalm dei detrattori) di quest'anno giunto ormai al capolinea, sulla struttura della quale pertanto mi dilungherò, onde consentirvi di skippare agevolmente l'intero paragrafo. L'esordio arpeggiato su digressione di tre accordi, rifiniture in ovedub della solista e impalpabile cassa in quattro è un modulo stilistico riconoscibile (può ricordare tanto Hands Away degli Interpol quanto This Modern Love dei Bloc Party), ma la Scott ed Ellis lo declinano in modalità personale (una tastiera a fare le veci del basso, quest'ultimo che punta solo su un armonico), specie quando entra il canto dolce e sconsolato: Lay off me, would ya? / I'm just trying to take this new skin for a spin / Pray for me, would ya? / I'm just nervous for my family filing in / Ready to wrap me up / Ready to love me in this new skin I'm fillin' in. A un minuto irrompe il ritornello (che in questa prima incarnazione sembra più un bridge), tumultuosa alternanza di vuoti e pieni, a mettere in crisi il baricentro della composizione; la quale però riprende stabilizzandosi in un alt-rock mid-tempo, reso vacillante da una misura in 6/4 (la seconda delle quattro che compongono il tema della strofa). Il secondo ritornello è identico, ma già nella sua terza riproposizione esso cambia pelle: via i tom tom, riparte il ritmo binario però in tempo dimezzato, ed è frenesia prima del silenzio. A 3'20'' il brano resuscita in una coda autonoma, quasi un corale, scandito stavolta da una progressione culminante nell'accordo in maggiore, maestoso accompagnamento all'ormai topico/inestricabile passaggio The darkness fears what darkness knows / But if youve never known the darkness / Then youre the one who fears the most.
Il percorso lirico della Scott, vittima di interpretazioni fin troppo aderenti ai cliché romantici, s'inasprisce nei toni pur sottintendendo una certa riflessività, quasi che l'obiettivo sia quello di mettere ordine nell'ingarbugliato/tortuoso corpus tematico caro alle cantautrici '90s emerse dal contesto riot grrrls. Un fine analogo sembra animare la britannica Nadine Shah, anch'ella propostasi quest'anno con un disco assai più curato del precedente. Asciugare le sbavature, eliminare i raptus incontrollati, attenuare la retorica di icone femminili perdute o messianiche - da sempre un must per il pubblico rock - senza sacrificare il conflitto e la gestualità che ne informano la grammatica: ambizioni nobili, ora perseguite da Torres con la necessaria lucidità e consapevolezza dei propri mezzi. Finalmente.
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