Widowspeak
Almanac
Titolo giusto, Almanac, per il secondo disco dei Widowspeak, che vi si mettono un po in posa, come da copertina, mostrando di saper giocare bene la propria disposizione vagamente laccata per lAmerica profonda. Come nel debutto di un anno e mezzo fa, tornano tonalità slow-core sfumate di psichedelia, sbuffi Mazzy Star alternati a partiture sognanti in stile Elysian Fields, scampagnate di americana in costumi démodé e trame roots di chitarre che si fanno a tratti più muscolose, mentre la voce di Molly Hamilton continua a ricamare languori in odore di Hope Sandoval.
Sebbene siano passati da trio a duo, dunque, i Widowspeak aggiungono qualche freccia strumentale e stilistica al loro arco, trovando soluzioni felici dove accelerano (Dyed in the Wool) o dove ripescano da un bagaglio di folk spettrale degno dei Decemberists, come nei ¾ con fisarmonica di Thick As Thieves. Ed è proprio dove il suono dellacustica asseconda le levigature delle voce che si hanno i pezzi più convincenti (Ballad of the Golden Hour, "Stormy King"); solo lingenuo ammicco Fleet Foxes, in questo quadro, è flaccido assai (Minnewaska).
Poi si procede sempre tra sfondi western immaginari e deserti polverosi, tra passaggi melodici a vuoto riempiti alla belle meglio da qualche svisata psych (Devil Knows) e pezzi che invece la terra rossa te la buttano addosso su ritmi narcotici orditi a perfezione dalle chitarre in leggero twang (Sore Eyes), Morricone patrono. Restano band datmosfera e con un sapore ben definito, i Widowspeak. Un sapore vecchio, perché gli almanacchi sono quelli degli avi e le fotografie sono ingiallite dal tempo. Escapismo rétro ben ricostruito. Un piccolo museo di provincia del Midwest. Finché ci sono buone canzoni, perdersi nellartificio è bene.
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