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R Recensione

7,5/10

Wilco

The Whole Love

È maledettamente complicato chiamarsi Jeff Tweedy e pubblicare il “prossimo disco” se nel tuo passato c’è scritto “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born”. Ma i Wilco non sono un gruppo qualsiasi, non lo sono mai stati, anche quando negli ultimi tempi avevi il dubbio che fossero i Fleetwood Mac 2.0 con un’ambizione spropositata. La band di Chicago ricorda quel vecchio compagno che ti porti dietro dalle sbronze giovanili, qualcuno leale nonostante tutto, nonostante i silenzi che seguono gli scazzi e le incomprensioni. Uno su cui puoi tornare, perché lui ci sarà sempre e non tradisce. “The Whole Love” sembra il lost album dimenticato in qualche cassetto post-Jim O’ Rourke dall’ex-ragazzo che avrebbe voluto indossare tutte le giacche di Parsons nei Big Star. Un ideale filo di Arianna che riannoda con la cautela della maturità tradizione e presente nell’almanacco sonoro di un genere, la cosiddetta “americana”, custode storico del Grande Paese e che grazie a Tweedy era riuscito a collocarsi nel futuro tra sentieri anomali quali la psichedelia motorik e l’indie-rock più creativo (“Misunderstood”, “Ashes Of American Flags”, “Spiders” ndr).

Confessiamolo a bassa voce, “Sky Blue Sky” e soprattutto il raffinato bignamino pop-rock del Cammello Album non erano così male rispetto a certe balbettanti pantomime di tanti reduci anni Novanta però, diamine!, stiamo parlando dei Wilco e non di cinque miliardari imbolsiti che vogliono riscrivere “More Than A Feeling” in salsa AOR-grunge. Chi si abitua a champagne e caviale finisce che schifa una (pur ottima) trattoria dei Castelli. Poi nel settembre 2011 premi “play” sul lettore mp3 e parte il tappeto robotico di “Art Of Almost”, prima traccia di questo “The Whole Love” autarchicamente prodotto per la nuova label dBpm dei Nostri: sette e più minuti di battiti electroglitch con la voce del fu Uncle Tupelo a salmodiare libera fra l’amato Lennon e un placido Stan Ridgway, implementati dal drumming squadrato della grancassa di Glenn Kotche e dai micidiali solipsismi di chitarra che collidono Neu e Crazy Horse dell’eccellente Nels Cline. Un flash techno-krauto inaspettato e una proverbiale sintesi di futurismo rock magnificamente irrisolto (a qualcuno in quel di Oxford staranno fischiando le orecchie, vero Thom?), la prova concreta che superato il muro degli “anta” una dimensione parallela-Wilco è ancora possibile. Questione di testa, di cuore e d’una coerenza-trattino-fame artistica a prova di acido cloridrico, qualità innate che hanno solo i veri grandi (e sentite qua David Letterman, accipicchia).

“Art Of Almost” è una momentanea scossa d’assestamento al miglior classicismo rock contemporaneo, un pendolo che oscilla disinvolto dal pop-folk multistrato del singolo “I Might” (memore delle lontane prelibatezze deviate di “Summerteeth”, con un perfido loop da “TV Eye”!) alle umide ballate-dormiveglia “Sunloathe” e “Black Moon”, dal power-pop immortale della doppietta “Dawned On Me”-“Born Alone” (che sfodera spavaldi synth analogici sul ripetuto bridge) alla swingante e nostalgica giostra di suoni in “Capitol City”, una “When I’m 64” secondo Randy Newman. Il falsetto che contagia l’innodica “Whole Love” e la nuda polpa acustica di “Rising Red Lung” conservano ostinate l’idea della perfetta pop-song travestita con eleganti abiti alt-country e lievi ricami di pedal-steel, in una pulsante unione di vecchio e nuovo, di asperità e dolcezza, di pennellate vintage e caldo abbraccio elettro-acustico tanto caro ai wilcomaniaci di “Being There” e “YHF”.

Nelle liriche Tweedy descrive un amore pieno, totale e contrastato, un amore incerto e profondo che sfocia nei 12 minuti conclusivi dell’epifania country-folk “One Sunday Morning”, altro cruciale epos sonoro che s’aggiunge al demistificatorio incipit. E mentre nella dolente dedica di ferite edipiche il sussurro di Jeff s’accompagna al mirabile feeling esecutivo dei suoi musicisti l’arpeggio gentile lentamente svanisce, va a dissolversi lungo tenui note di piano, evapora su rarefatte nuvole di un utopistico ambient rurale: “…This, i learned without warning. Holding my brow. In time he thought i would kill him. Oh, but i didn't know how…I said it's your god i don't believe in. No, your Bible can't be true. Knocked down by the long life. He cried, 'I fear what waits for you'…” L’insostenibile leggerezza di essere Jeff Tweedy. Lunga vita ai Wilco.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 17 voti.

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target alle 12:56 del 16 ottobre 2011 ha scritto:

Ragazzi, scusate: qualche accidente tennico-tattico ha reso un po' avventuroso pubblicare la recensione di questo Wilco. Due-tre commenti sono andati persi. Rifatevi qua!

ozzy(d) alle 20:23 del 16 ottobre 2011 ha scritto:

forse daniele usa l'ipad come luis enrique e ha fatto un po' di confusione ghghghgh

NathanAdler77, autore, alle 21:43 del 16 ottobre 2011 ha scritto:

RE: forse daniele usa l'ipad come luis enrique

Ahahah...No, no costano troppo gli aggeggi della buonanima Jobs. Forse l'ha usato qualche collega, boh. )

countryjoe (ha votato 8 questo disco) alle 22:53 del 20 ottobre 2011 ha scritto:

Per me disco notevole.

Peccato solo per la inutile Standing O. Biglietti di marzo all'alcatraz già presi.

REBBY (ha votato 7,5 questo disco) alle 10:04 del 28 novembre 2011 ha scritto:

Yankee hotel foxtrot (9,5), A ghost is born (, Sky blue sky (7) The album (6) The whole love (7,5). Ovvio quindi che anche per me i Wilco siano una delle band americane più importanti di questo nuovo millenio. L'album di quest'anno è stato comunque una bella sorpresa (a mio giudizio inverte il trend "ribassista") ed in particolare trovo splendido il pezzo di apertura Art of almost. Peccato solo non abbiano insistito su questo "fronte", proponendoci così altri brani diversi dal loro repertorio abituale.

bargeld (ha votato 8 questo disco) alle 13:54 del 14 dicembre 2011 ha scritto:

Ancora un disco gigantesco, Art of Almost un capolavoro.

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 22:53 del 26 dicembre 2011 ha scritto:

i wilco (garanzia), qui di gran mestiere. disco che non vuole osare: ascolto, in media, gradevole, senza particolari picchi (esclusa l'eccelsa e sì coraggiosa "art of almost") né scivoloni evidenti.