Yamon Yamon
This Wilderlessness
L’industria culturale, globale, operosa e continuamente cangiante di questi ultimi anni, alla quale siamo esposti dalla mattina alla sera, è il male assoluto. Oppure no? Nelle lande, pompose in apparenza, ma più che mai brulle, di un mondo a misura delle nostre identità fluttuanti e mai completamente appagate, a volte accade di imbattersi in prodotti davvero degni di valore, come This Wilderlessness degli Yamon Yamon, e passare (se non subito) rapidamente oltre. Non è stato il mio caso.
Nella limitata compagine di un’etichetta ancora misconosciuta, la Tendervision, il progetto Yamon Yamon prende, nel 2002, forma e sostanza. Uppsala è il "terreno" d’incontro tra Christoffer Öberg, batterista, ed il chitarrista e cantante Jon Lennblad: il passaggio ad una grande città (Stoccolma) dopo gli studi superiori, porta il gruppo a virare (non completamente) dalle precedenti influenze musicali (di matrice post-rock) e a inserirsi nella vivace scena indie svedese. Parallelamente alla registrazione del singolo Days like Television (che precede l’uscita dell'album di debutto This Wilderlessness) viene ingaggiato Joakim Labraaten alla seconda chitarra e poco dopo, anche John Sjöberg si unisce al gruppo nel ruolo di bassista. A questo punto l’organico è completo.
Frastagliata, melanconica, easy listening, angolosa, melodiosa, irregolare, nettamente circoscritta: queste le risultanti di una sapiente miscela musicale da parte degli Yamon Yamon, delle principali matrici alt-rock contemporanee, dal math pop/rock allo stesso post-rock e l'afro-beat, fino a incorporare l’immediatezza indie-rock più pura, di deriva scandinava (Mew) e canadese (Arcade Fire, Clues) che This Wilderlessness porta in sé (prova, a mio parere, di un' elevatissima sensibilità musicale). E se la scena scandinava ha già fatto parlare di sé in questa prima parte dell’anno, con l' interessante Eggs degli Oh No Ono e il discreto terzo lavoro dei The Radio Dept., non è certamente possibile, da parte mia, esimermi dal considerare l'album degli Yamon Yamon come una delle più interessanti proposte del 2010, in senso assoluto. Convincermi di ciò è stato, tutto sommato, semplice e piacevole.
Si inizia: Alonso presenta subito un irresistibile fraseggio di chitarra e batteria, faro guida di tutta la canzone, che si conclude in un controtempo percussionistico, poggiato elegantemente su soffici distorsioni e lievi fills di chitarra. Wang Lee è un brano dal suono intenso, dove le tessiture chitarristiche donano al brano un groove insieme sferzante, tagliente e danzereccio. Sole tiepido, lunghe passeggiate, un po’ di vento ad accarezzarci gentilmente, Wang Lee: il mix perfetto per queste splendide giornate primaverili. No Depression è un flusso trasognato, dove la linearità della voce di Lennblad traspare come fiotti di luce ad intermittenza in una prima parte melodicamente splendida, e successivamente, dirigendosi verso una lunga coda che aspetta l'apice di un climax che non arriverà mai; l’architettura della canzone si arricchisce, sul tratto finale, di echi post rock, reiterati e lineari, sostenute da stratificazioni morbide e in crescendo, che donano alla melodia un'aura insieme epica e di grande impatto estetico.
L'ascesa verticale di The Darker place (che ha un riff/abito che pare fatto su misura per Johnny Marr) è il preludio dell'episodio, a mio parere, più significativo dell’album. African Nights è un sogno ad occhi aperti: le progressioni armoniche di questo pezzo, seppur nella loro semplicità, evidenziano un'incisività nel lavoro compositivo di assoluto spessore. Il tono algido del pianoforte innesca rappresentazioni vivide di turbinii emotivi messi sotto scacco, e percepiti da una prospettiva appagante. Melanconia viscerale, introversa, fanno capolino nella conclusiva High class, superba ballata, contraddistinta da un ossessivo giro di piano, che ricorda i Coldplay più asciutti di A rush of blood to the head, con un intermezzo segmentato che fa molto Dirty Projectors.
Nulla di particolarmente innovativo o di assolutamente originale, intendiamoci; se siete però convinti che in queste, odierne, terre aride (ma è poi così?) del rock, poco riesca ad “illuminarvi”, This Wilderlessness potrebbe essere per voi oro lucente.
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