David Sylvian
Secrets Of The Beehive
Tutto sembra impeccabile, suona perfetto, nulla è dato al caso. I colori incendiari di un autunno ormai inoltrato dominano il quadro, seminato di una smisurata quantità di foglie d'acero gialle e rossastre, distribuite con sciatteria lungo il viale dietro casa, quello che porta dritto al tramonto.
Solo qualche settimana fa pullulava di gente, schiamazzi di bimbi che si rincorrevano ed i venditori ambulanti garantivano un sollievo immediato nei soffici affondi di limone e menta.
Ora regna il silenzio più assordante, le nostre sagome in questo desolato luogo scaldato dall'ultimo audace sole, ancora restio a cedere il passo al crepuscolo sempre più vicino. L'eco lontana delle canzoni che, dai juke box, hanno perseguitato e disturbato la mia estate è solo un cattivo ricordo ed il silenzio, in quest'opera Gauguin-iana dalle tinte forti, introduce la componente sonora che completa l'opera, la quintessenza del binomio suoni-visioni, gli arcani "segreti dell'alveare". Le api sono universalmente riconosciute come insetti sociali, si adoperano per il bene comune sostenendo, con il proprio lavoro, quel microcosmo che è l'arnia.
Non so se Sylvian, in quel lontano Novembre del 1987, pensando al titolo per il suo quarto album, abbia riflettuto su questo concetto. Inconfutabilmente "Secrets of the Beehive" (Virgin) è un' opera che fa bene all'anima, un prezioso dono alla collettività, un testimone per i posteri. Incantevole già nella presentazione visiva (un artwork in tonalità effetto seppia molto evocativo), Sylvian dipinge, con la peculiare maestria dei grandi poeti, una delicata, ammaliante tela dai colori accesi che esplodono in bagliori improvvisi per poi dileguarsi, inghiottiti dal buio alle porte, quello più prossimo ai sogni. "Noi diciamo d'essere innamorati mentre in segreto speriamo che piova" ("September"). Sakamoto intona al pianoforte un rito propiziatorio, spero abbia effetto e cada acqua a secchiate su quest'anima bruciata da musica e parole troppo forti e belle per rimanere indifferenti.
Storie di emarginazioni, di ingiustizie e rivincite ("The Boy with the Gun"), ballate notturne che corteggiano la vibrante, sepolcrale voce dell'ex Japan in "Maria" (la strega in un film di Andrei Tarkovsky) e portano spediti, abbandonati al piacere, a quella straordinaria composizione che è "Orpheus". Determinazione e tenacia ritta contro il vento nella lotta della vita, oscurità e luce, profondità marine e riflessi dorati a pel d'aqua dove un sole narcisio ama specchiarsi mentre Orfeo "dorme riverso, ancora morto per il mondo", cullato da una ninna nanna di piano e licorno che assopirebbe anche Argo Panoptes. In questo territorio di confine tra sogno e realtà, il demonio percuote il suo tamburo lanciando il suo incantesimo ("The Devil's Own") e promette buoni propositi purchè entri nelle vite della gente dalla porta principale, quella del cuore, in pompa magna ("When Poets Dreamed Of Angels"), accompagnato dalla leggiadra tromba di Mark Isham. Il percorso tracciato dall'onnipresente pianoforte di Sakamoto si snoda tra le buie atmosfere ed i cattivi presagi di "Mother And Child", la positività di "Let The Happiness In", ricordi e considerazioni di merito nell'orchestrale "Waterfront" e la conclusiva immortale "Forbidden Colours", manifesto antimilitaristico e condanna alla omofobia (colonna sonora del film "Furyo" di Oshima).
Parole come gemme grezze in una melodia che rimane inalteratamente brillante nel tempo, che va oltre i generi e le tendenze musicali, classificabile solo attraverso i dogmi universali dei capolavori. L'autunno puntualmente, come ogni anno, ha tinto con i suoi colori i paesaggi della mia esistenza, ha donato pace e serenità alle mie giornate, trascinandomi sonnolento tra giorni sempre più corti e notti sempre più fresche, allietate da storie di inconfessabili segreti che appartengono ad un microcosmo.
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