Blitzen Trapper
Destroyer of the Void
L’America della tradizione che cerca strade nuove: questo sono, da sette anni a questa parte, i Blitzen Trapper. Post-alt-country Wilco-style, post-revival di americana da saloon e deserti selvaggi, post-sbornie folk, post-Neil Young, beatlesiana appena può, la band di Portland si ritrova sul groppone una tale quantità di numi tutelari, dai quali cerca assieme di trarre linfa vitale e di costruire variazioni, che la scelta di appiattirsi su soluzioni più facili non appare neppure troppo sorprendente. Dopo le schizofrenie di “Wild Mountain Nation” e il pot-pourri vintage di “Furr” (il loro zenit, direi), questo “Destroyer Of The Void” delude un poco, assecondando le impressioni dell’Ep dell’anno scorso (“Black River Killer”). Che matematicamente si legge: meno psichedelie, più delicatezza, meno trovate, più normalizzazione = ordinarietà.
Eric Early continua a sfoggiare una facilità di scrittura ammirevole, ma a lasciare perplessi è la tendenza a cancellare quel gusto per la mescolanza di stili, alla fine un po’ eccentrica, pur dentro i solchi delle roots più canoniche, che caratterizzava i lavori precedenti. Solo la prima parte del disco riserva qualche spunto in una direzione più ‘destrutturata’ e sporca, nelle suite “Destroyer Of The Void” e “Below The Hurricane”, ma senza entusiasmare, soprattutto nel primo caso, dove l’altalena tra passaggi beatlesiani e puntatine hard-rock (!) risulta un po’ artificiosa.
E allora, nel resto del disco, trionfano, senza più tentativi di mixare maniere dentro un unico pezzo, schegge di tradizione ripulite e pronte-al-riuso, a formare un mosaico niente più che piacevole: adorazioni a Dylan con armonica inclusa (“The Man Would Speak True”, sorta di “Black River Killer” parte seconda), sguaiati chitarroni '70 (“Love And Hate”), soavi ballads di piano ed archi (“Heaven And Earth”), numeri alt-country polverosi (“Dragon’s Song”), incalzante pop retrò (“Laughing Lover”, vd. Dr. Dog), auto-citazioni ("Evening Star"). Niente di trascendentale, anche se il folk panico di “The Tree”, in compagnia di una deliziosa Alela Diane, con le decorazioni di una steel-guitar rusticissima, emoziona di semplicità.
La speranza, dopo “Furr”, era che i Blitzen Trapper sviluppassero, tra le maglie fittissime dell’America weird e barbuta degli ultimi anni, una loro via, più ‘classica’, di farlo strano. Hanno finito, invece, per suonare un po’ più ortodossi e più sciapi di prima. Piccola involuzione.
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