Jane's Addiction
Ritual de lo Habitual
I Jane’s Addiction sono tra i gruppi a stelle e strisce più sottovalutati degli anni a cavallo tra ’80 e ’90. In quel periodo la faceva da padrone il grunge, ovviamente, insieme ai reflussi dell’hard rock anni ’80 (vedi Guns N’ Roses), ai grandi gruppi indie e noise (Sonic Youth, i Fugazi, i My Bloody Valentine, tra i tanti) e alle band mainstream nel pieno del loro successo (R.E.M., U2). Il grande pubblico era ovunque saturo di stimoli, icone, idee. Ma di fianco a formazioni pregevoli, spesso salirono sul carro dei vincitori anche altri non certo all’altezza, copie sbiadite degli originali.
I Jane’s sono il caso opposto. Al posto giusto, nel momento giusto, ma con i vestiti sbagliati, furono la band che meglio seppe tratteggiare la città degli angeli e un certo lato dell’America, quella dei bassifondi, delle puttane e dell’eroina, una wild side reediana aggiornata e ambientata sulla costa pacifica, per intenderci. Rappresentarono tutto ciò molto meglio di altri gruppi diventati famosi (come i già citati Guns), ma con la sfortuna di non riuscire mai a vendere quanto i collegi d'oltregenere, di non sfornare mai dischi facili, anche se non sono i ritornelli a mancare.
Farrell non divenne mai un’icona mainstream come tanti altri della sua generazione, pur condividendone il talento, ma fu di certo un guru, un mito del rock alternativo, grazie soprattutto alla sua seconda creazione: il carrozzone alternativo del Lollapalooza. La band durò lo spazio di due dischi, per poi riunirsi nel 2003 e poi ancora in questo 2011: ritorni a dire il vero qualitativamente lontani dallo splendore dei tempi migliori.
E se il primo disco, "Nothing's Shoking" (in realtà il secondo; il primo era un egregio live del 1987 che conteneva la cover di "Sympathy For The Devil" e un altro loro gran pezzo, "Whores") rimane ad oggi il loro lavoro migliore – un capolavoro assoluto che miscelava alternative metal, funk rock e psichedelia come mai nessuno – è il loro secondo album a proiettarli, complice anche la contemporanea nascita del suddetto festival Lollapalooza, e a regalare loro perfino qualche passaggio su Mtv, nonché tre dischi di platino.
Nonostante non sia epico e innodico quanto il suo precedente, e sia probabilmente meno compatto, "Ritual de lo Habitual" è più levigato nei suoni, sfaccettato e contiene i pezzi più famosi della band. L’apertura è affidata al primo singolo, "Stop", probabilmente il brano più famoso del quartetto, con la storica intro di voce femminile che presenta la band. "No One’s Leaving" e "Ain’t No Right", con i loro vorticosi giri di basso e i riff di chitarra taglienti sono i classici pezzi funk metal, i più vicini, per intenderci, al sound dei Red Hot Chili Peppers d’antan anche se, rispetto ai cugini, le chitarre sono più corpose e la voce più duttile. "Obvious" è il pezzo più fiacco del disco e paga il minutaggio, ma apre il sentiero a quello che sarà il terzo singolo, "Been Cought Stealing", orecchiabile e naif, forse il pezzo che rimane più impresso al primo ascolto in questa prima metà del disco.
La rottura del lato B rispetto alla prima parte è netta. Sembra di ascoltare un altro disco, quasi un’altra band; la durata negli ultimi quattro brani raddoppia. Il funk e l’hard rock più incline al facile ascolto spariscono. Il disco si fa psichedelico, esotico, crepuscolare. È questa seconda parte a risultare più difficile al primo ascolto, ma anche quella che meno risente dei segni del tempo. "Three Days" (secondo singolo) è uno dei più bei pezzi del gruppo, un’epopea rock di quasi undici minuti, una "The End" più tropicale e ballabile, ma comunque maledetta, depravata. "Then She Did..." è un tributo commovente di Farrell alla madre morta suicida, mentre l’orientaleggiante "Of Course", cosparsa di tamburi e violini, su cui Farrell gorgheggia come uno sciamano indiano, anticipa quello che sarà il trend del progetto successivo di Farrell, i Porno for Pyros (memorabile il loro "Good God’s Urge"). Il disco termina con l’ultimo singolo estratto, "Classic Girl", una struggente ballata acustica che sostanzialmente chiude non solo il disco, ma la carriera che conta dei Jane’s Addiction, che non si ripeteranno mai più su livelli simili.
Una lezione da riprendere in mano. Niente intellettualismi, ma nemmeno divertimento fine a sé stesso. In barba a certe pieghe prese oggi, in un verso o nell’altro, dal rock alternativo d’oltreoceano. Spensierato, ma estenuante, evocativo. Non un capolavoro in assoluto, ma di certo uno dei dischi più belli e originali degli anni ’90. E non è poco.
Tweet