Massimo Volume
Da Qui
No, non saranno i pensieri clandestini che alzano le gonne come prostitute a pesarti le parole in gola. Qualcuno era convinto che sono importanti “e chi parla male pensa male”. Qualcun altro (l’Harry Dean Stanton\Travis) vagava perso e muto per sempre nei suoi labirinti mentali, tra rocce calde e cespugli al confine col Messico, esule da un passato rimosso, dai fantasmi di Nastassja Kinski e un figlio dimenticato. Perché aveva consacrato a idoli le montagne intorno confidando nella loro sacra protezione. In fuga nel vuoto degli spazi, interiori e scenografici, senza un posto dove dormire, senza nemmeno la forza di lottare per i propri sentimenti. E una dignità barattata con niente.
“Un buon posto per dimenticare” ripetono in continuazione i protagonisti di “Manciuria”, l’ultimo e crepuscolare John Ford: le note a spirale di Egle Sommacal sono un mantrico susseguirsi di antichi sogni nel buio, a dissanguare ferite nella notte, così complici, labili. E le parole, quelle parole pesanti che Emidio Clementi lega con un filo di piombo al suono proteso del suo basso aprono cicatrici nascoste agli altri troppo a lungo. Mimì declama, scandisce e libera nell’aria sfatta frasi, persone, ambienti, scene madri e flashback in movimento, sa il significato e l’importanza di un’esperienza vissuta sulla pelle, e il personale diventa comune, ci unisce e piega agli eventi.
“Qualcuno ha lasciato una testa di maiale dietro casa. Non ho idea di chi l’abbia lasciata lì e che cosa voglia dire, una testa di maiale con una freccia tra i denti. Un avvertimento, forse…”
Come il vento che nel viaggio notturno piega gli alberi e tende quei fili dove nessuno stende più la biancheria (“C’è Questo Stanotte”, un foglio bianco di distese che spezzano l’oscurità, un vivido fotogramma lontano). La solitudine è una stanza affollata che rende vulnerabili agli sguardi altrui, tutti capiscono che dal centro del tuo cuore sanguina ancora una ferita, allora fissi stanco e immobile il riflesso sulle vetrate, e ti chiedi chi sia l’estraneo che osserva.
“…Karin è bionda ed esile. E quando ride è come se si vergognasse di farlo. Il vento ci scompiglia i capelli, ci ruba le parole…”
Un “Atto Definitivo” e puro nella sua tragica verità (“…niente cibo alla luce del sole!”), mentre sale la tensione dei grovigli elettrici di Egle, Gabriele Ceci e Metello Orsini (nuovi, funzionali comprimari alla sei corde) e il drumming solido e incisivo di Vittoria Burattini costruisce l’impalcatura su cui poggia una struttura musicale geometrica, imponente. Siamo passeggeri occasionali “Sul Viking Express” (espressivo post-rock d’autore sostenuto da una sezione ritmica insidiosa e chitarre liquide) e il tempo diventa una formalità che assume il volto e l’imbarazzo di una sconosciuta, quando lasciamo negli angoli dei ricordi incustoditi le rovine e “La Città Morta”.
“…A Napoli cercai un hotel, poi andai a tagliarmi i capelli…Chiesi: ‘Qual è il quartiere delle puttane?’”
Tante cose non sarebbero state le stesse da qui, per quei giovani che nell’Italia già malmessa e televisiva di metà anni Novanta cercavano un rifugio sicuro, una voce densa e ipnotica, e versi iperrealisti che andavano a scolpirsi nella memoria con cruda lucidità (più vicini a Faulkner o Raymond Carver che all’usuale acquario rock tricolore). “Da Qui” fu il terzo full lenght dei bolognesi Massimo Volume, prodotto da Steve Piccolo e Angelo Kaba Cavazzuti allo studio Vida-Esagono di Rubiera (ma doveva metterci mano un affascinato John Cale), l’album che cristallizza e cesella in un letterario ambient post-wave le intuizioni noise delle pietre angolari “Stanze” e “Lungo I Bordi”. Una preziosa trilogia discografica che all’epoca ben poche band, italiane e straniere, potevano esibire in vetrina.
“…Non c’è nessuno dietro queste stanze illuminate, dentro questo poster ‘Manhattan Di Notte’ che nasconde l’interno della cucina di un ristorante giapponese…”
Un agglomerato di fatti, persone, particolari all’apparenza insignificanti (le trame slow-core dell’evocativa e introversa “Manhattan Di Notte”, il possente rigurgito del minaccioso post-noise “Avvertimento”, il paesaggio spettrale di “Sotto Il Cielo”, l’introspettiva “Qualcosa Sulla Vita” e le sue lettere contenute dentro sacchi di tela nel solaio) ma che scavano dietro un quadro umano di letale e imperfetta bellezza. Eravamo la cornice di un romanzo medievale, diceva. Le “Stagioni” passano, gli uomini muoiono, i governi cadono e fuori è tornata la peste.
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