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R Recensione

7/10

Matteo Toni

Santa Pace

 Matteo Toni è un ragazzone modenese di 37 anni che ama stare accoccolato su uno sgabello, meglio a piedi nudi, con una slide guitar posata sulle gambe. Quest’immagine, in Italia, è una rarità pressoché assoluta: all’orecchio, poi, la singolarità è ribadita. Evadendo dai confini della penisola, al contrario, l’accostamento (ingombrante) con Ben Harper è facile, inevitabile; fare di Toni un mero discepolo dell’americano, tuttavia, sarebbe scorretto, oltre che fuorviante. Il gravoso raffronto calza solo di rado: nei momenti dal respiro soul-rock, in alcuni arpeggi più limpidi. Ma Matteo Toni e il batterista Giulio Martinelli – che manifestano la loro arte in italiano, e questa è già una naturale differenza di non poco conto – esplorano personali, specifici orizzonti, colorati da tonalità nuove. Il paragone con Harper fa parte, dunque, di un giochino puerile che si serve del confronto come esclusiva occasione di classificazione o di eventuale screditamento, senza comprendere che un’ispirazione, poi, può intraprendere percorsi propri.

Il primo ep di Toni, uscito nel 2011, contava cinque soli brani, un assaggio. Denotava una materia grezza, acerba, che necessitava ancora di plasmarsi, prendere forma, assumere contorni: pur rimanendo nel medesimo solco, Toni giunge perciò a quasi completa maturazione con il nuovo disco, Santa Pace, rafforzando la sua ricerca di “calma interiore”, la stessa che lo spinse ad abbandonare il suo progetto precedente (i Sungria), dedito al funk-reggae. Santa pace come il terzo brano dell’album, ma anche come “Preghiera alla tranquillità di vivere le cose”, nella loro immediatezza e nella loro veste essenziale: una vagheggiata semplicità pervade infatti tutto il disco, si riverbera di continuo nelle armonie e nei concetti. Dalla miscela di ingredienti in possesso di Toni e Martinelli – si va dal reggae al rock più puro, con un pizzico di blues e di pop – potrebbe nascere un piatto troppo farcito, perciò anonimo e insapore. Il dosaggio degli elementi è invece misurato con sapienza: l’esito è una pietanza agrodolce, delicata o esplosiva a seconda dei momenti. Questa consapevole bivalenza, presente talvolta all’interno di uno stesso brano, non è male amalgamata: i tratti luminosi, raggianti (nella musica e nelle liriche) lasciano il posto a temi più cupi, sporchi e sabbiosi senza che questo scarto crei eccessivo disorientamento.

È con la seconda parte del disco che atmosfere distese e melodiche soppiantano le tracce ruvide e viscerali che imperavano agli inizi. La voce spesso tremante, affiatata coi vibrati della chitarra, si libera in testi senza fronzoli, disincantati e quasi timidi, che però scansano abilmente banalità in questi casi sempre dietro l’angolo. Perciò ballate quali Alle quattro del mattino (continuazione del pezzo precedente) o Acqua del fiume non sono mai brani piatti e scontati, anzi si collocano tra gli episodi migliori dell’intero album. Eppure gli echi ruvidi e surreali (Bruce Lee vs Kareem Abdul-Jabbar) e i respiri blues di Isola nera aprono prepotentemente il disco. Il brano omonimo dell’album, assieme Alle quattro del pomeriggio, rivela l’afflato reggae appartenente al retaggio di Toni, che poi si perde nella meraviglia e nello stupore dei ricordi (I provinciali di nuoto). Slide evocativi, invece, coronano la fluttuante Melodià e il finale scintillante di Fidati. Nel grande congedo, Il canto di Valentina, Toni invoca “pazienza” e “speranza”: sono entrambe doti che egli dovrà coltivare per affiorare da un panorama musicale italiano a tratti troppo spento e asfittico. La luce accesa è quella buona, la sua musica è qualcosa di diverso, di inconsueto, che non imbocca strade battute (potrebbe anzi fabbricarne di nuove), ma calca sentieri insoliti. E lo fa a piedi nudi, con una chitarra slide sulle gambe, la voce tremante e talvolta con un’armonica in bocca, in quella pacifica semplicità che a volte è migliore di ogni orpello.

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