The Replacements
Tim
Essere adolescenti non doveva essere il massimo della vita, a Minneapolis, nei primi anni '80.
Ma a dire il vero non lo era neanche nel Belpaese a fine anni '90: specie se eri una specie di alieno musicale, catapultato fra schiere di fans della premiata ditta Liga-Vasco, metallari dai capelli al vento con tanto di immagini di Ed tatuate ovunque; graffitari ed hip-hoppers di serie Z con il poster degli Articolo 31 appeso in camera, o devoti di Queen, Dire Straits ed altri paladini del rock serio, da contrapporre al pop adolescenziale ed alla sua superficialità (bah).
Quasi non fosse bastato confrontarsi con le ragnatele acquattate nel cervello, o nascondere dietro il sorriso gentile interi pomeriggi spesi in camera a struggersi sulle note di Nevermind, The Queen Is Dead o Disintegration (aspettando di superare finalmente quella fase: bellissima ma atroce) il sottoscritto era pure costretto a fronteggiare orde di fanatici pronti ad arricciare il naso davanti al primo accordo di Marr o alla voce cavernosa di Ian Curtis.
Davanti a tutti quegli artisti che hanno marchiato a fuoco gli anni del liceo. Tutti artisti peraltro indissolubilmente legati, quanto ad immagnario, a quella particolare fascia di età, e che quindi rappresentano al meglio l'epoca cruciale della nostra maturazione, the hardest age per dirla con Westerberg.
Ecco, fatta la doverosa premessa "storica", rimane un fatto: il vero gruppo giovane della mia vita, quello che ha saputo non solo riscrivere le coordinate musicali della gioventù, ma anche tratteggiarne i sentimenti più forti, l'ho scoperto quando i banchi del liceo erano un ricordo che cominciava a sbiadire, mentre si profilavano all'orizzonte le inquietanti immagini di un ufficio, di una vita stressante e di una carriera seria e rispettabile (quel che dovrei avere oggi).
Quel gruppo, manco a dirlo, sono i Replacements; e non importa che li abbia scoperti a vent'anni e passa, perché nessuno come loro ha saputo impossessarsi non solo dell'ingordigia e delle angosce terribili dell'adolescenza, ma anche del silenzio ansiogeno e degli incubi della post-adolescenza, la foschia degli anni spesi a costruirsi un futuro fra esami universitari e lavoretti saltuari.
La cocciutaggine dei Replacements, in quella fase, rappresentava un appiglio straordinario. Perché Westerberg era un esempio di resistenza attiva: sembrava non volersi arrendere all'abbruttimento imposto dalle regole di una vita ordinaria, e si divincolava con forza dalle pesanti catene dell'età adulta e dalle sue responsabilità, rimanendo aggrappato all'insoddisfazione e al disadattamento quasi fossero una scelta di vita irrinunciabile. Ma senza condire il tutto con pesanti dosi di patetismo o vittimismo: anzi, risultando a suo modo sfrontato, quasi goliardico.
Oggi le responsabilità sono qui, onnipresenti, segnano ogni istante della vita: ma è bello ricordare che, per un attimo, tutto è stato nelle nostre mani; le maglie ristrette della realtà erano qualcosa da cui potevamo liberarci senza sforzo, la vita era tutto un ribollire di idee e di possibilità, vere o immaginarie, incanalate al meglio o sprecate senza arguzia. Non importava: contava solo essere vivi, esistere qui, esistere oggi. Westerberg cattura come nessun altro questo vago desiderio di qualcosa di più grande, ne materializza la percezione.
Ecco allora che Tim, quarto disco della band datato 1985, ultimo capolavoro assoluto del cantautore americano, diventa il simbolo non solo e non tanto di un'epoca, di una generazione, di un dato momento culturale e sociale (la vita sgangherata e audace dei giovani americani di provincia nel corso del decennio dell'edonismo e dell'oppressione, che assomiglia terribilmente ai nostri ultimi anni), ma anche e soprattutto l'emblema dell'incertezza, del fascino della gioventù e delle sue possibilità infinite.
Il suo è un disfattismo che non si crogiola nella miseria, ma che regala perle di poesia pura e una musica brillante, scattante, carica di irriverenza irreprensibile che solo a tratti adombra lo spettro della maturità. "Tim, per quanto mi riguarda, è anche il miglior disco di pop-rock alternativo degli anni '80, e pure l'anello di congiunzione fra il culto per l'autenticità dell'indie-rock americano e la spavalderia del pop, fra la furia iconoclasta e cocciuta dell'hardcore-punk e la profondità austera e malinconica di country e folk.
Il tutto insaporito da un songwriting eccellente e da un maledettismo trasfigurato in lirismo celestiale, che sublima in poesia le inquietudini della vita quotidiana e i contrasti in chiaro-scuro della gioventù. Gioventù che qui diventa quasi concetto metafisico cui aggrapparsi: perché Hold My Life è un raggio di sole che illumina con un riff morbido ed immortale (ennesima gemma di quel pazzo furioso di Bob Stinson, pace all'anima sua), mentre Westerberg cancella per un momento indisponenza e oscurità gridando il suo amore sfrenato per la vita, da assaporare qui e adesso.
Tim mi ha sbalordito subito per l'incredibile freschezza del sound, ma anche perché è uno dei pochissimi dischi in cui ogni pezzo è storia. A partire dal calore avvolgente della ballata Swingin' party, istantanea di feste autunnali vissute in penombra, immagine sbiadita di dubbi e rimorsi che innescano una reazione furente (If being afraid is a crime we hang side by side). Ancora una volta è il tono di Westerberg, intriso di romanticismo "disperato", a strapparti il cuore ed a farti a pezzi le budella: perché Paul ha la capacità di trasmettere con la sola consistenza della voce tutto ciò deve trasmettere.
Qualcosa vibra dentro di lui e contemporaneamente si smuove dentro di te, quasi foste entrambi accanto allo stesso fuoco, durante una lunghissima serata d'inverno a base di birra scura e ricordi impolverati da sfogliare. Waitress in the Sky è scanzonata e sfrontata come i pezzi migliori di Hootenanny, mentre l'invettiva a pugni chiusi di Left of the Dial conquista poco a poco in un crescendo melodico robusto e toccante, che mette a nudo l'ipocrisia del mondo discografico e suoi fallimenti. Little Mascara, spietata ma commossa fotografia di un amore allo sbaraglio (You and I, fall together/ You and I sleep alone), è pop-rock tiratissimo che si innalza nell'ennesimo ritornello immortale (e quante band ne prenderanno spunto, senza neanche avvicinarne lo splendore), mentre Bastard of Young dovrebbe inserirsi nell'Enciclopedia Treccani come prototipo della sfuriata rock, congegno di pura energia che ti smuove con riff appiccicoso e ti costringe a gridare come solo le cose più esaltanti dei Gun Club.
Qualche parola a parte la merita Here Comes a Regular, forse il capolavoro di Westerberg e di certo il pezzo più dolce e commosso della sua carriera: una ballata folk che trasuda e rispecchia tutti gli interrogativi di un momento cruciale della nostra esistenza, riflessione amara e composta sullo smarrimento della gioventù e dei suoi attimi irripetibili.
Ecco, siamo tornati al punto di partenza, sempre di gioventù si parla. Anche se in realtà importa poco il momento in cui avete scoperto Tim: cioè che conta è che gli concediate di cambiarvi la vita.
Esistono artisti da ammirare, contemplare e glorificare: ed esistono altre band che si devono invece semplicemente amare, come fossero infallibili amici del cuore. I Replacements sono per acclamazione i capofila della seconda genia: nessuno come loro può rovesciarvi come un calzino il concetto di emozione in musca.
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