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R Recensione

6,5/10

Arto Lindsay

Encyclopedia of Arto

Quando si tratta di raccolte, oltre a valutarne l'eventuale completezza, va tenuta in conto anche la qualità della confezione. In questo caso non ci si può lamentare: un bel cartonato con il suo diligente libretto. Ecco però che sfogliando quest'ultimo già emergono le prime imperfezioni: ci sono testi e credits completi per ogni traccia, con tanto di autori e session men, ma mancano le date e non ci è dato sapere da quali album siano tratti i pezzi in scaletta.

Ovviamente i fan più accaniti di Arto Lindsay saranno già a conoscenza di queste informazioni, il punto è una raccolta dovrebbe essere pensata per avvicinare chi ancora non ha compiuto il passo, anziché per compiacere chi l'artista lo conosce già in profondità. 

Il titolo è inoltre fortemente criticabile, in quanto accampa molte pretese: Lindsay ha una carriera particolarmente lunga e frammentata, nel momento in cui si pretende di farne una enciclopedia, si dovrebbero coprire spazi temporali ben più ampi. Qui invece si riduce il tutto a dodici brani riguardanti la sola carriera solista di Lindsay, epurando le sue band storiche e le varie collaborazioni. Tutt'altro che enciclopedia insomma. "The Best of Arto Lindsay 1996 2004" - questo l'arco temporale coperto dal CD in studio - sarebbe stato un titolo più veritiero.

Sulla musica in sé non c'è molto da dire, la formula di Lindsay come solista più o meno la si conosce: una sorta di rock alternativo dai toni soffici e sofisticati, disturbato saltuariamente da chitarre elettriche dissonanti e frammentate, con ritmiche a metà fra il post-rock e la musica brasiliana (principalmente bossanova, ma anche samba nei momenti più vivaci). Il lavoro è tutto sui pattern ritmici, sulle tessiture del suono, sui cambi timbrici delle chitarre. La composizione passa abbastanza in secondo piano e francamente si fatica a distinguere un pezzo dall'altro: detto ciò, è tutto suonato con una tale classe e padronanza che la cosa non pesa più di tanto. A conti fatti sono cinquanta minuti di musica piuttosto piacevole.

La vera ragione di acquisto per gli ammiratori di lunga data risiede semmai nel secondo disco, inedito e dal vivo, registrato nel 2012 al Pete's Candy Store di New York. Dodici brani, quaranta minuti di durata. Non vi si ritrova l'atmosfera vellutata dei dischi in studio, ma una ricetta alquanto scheletrica: la voce di Arto che borbotta nervosa e la sua chitarra elettrica distorta e prodiga di suoni scorticati. Non c'è altro, e francamente il gioco non vale la candela.

Le melodie vengono annientate: anche brani in origine rigogliosi e splendidamente pop come "Privacy", registrata nel 1988 con gli Ambitious Lovers, si ritrovano spolpati in un andirivieni di stecche e gorgoglii. Solo chi conosce l'originale può vagamente captare quanto fosse in realtà armonioso quel pezzo. 

E se fare ciò con una singola canzone può anche risultare interessante come esperimento, farlo per dodici onestamente metterebbe a dura prova la pazienza anche dei più stoici. Lo strazio con cui Lindsay trafigge "Estação derradeira" di Chico Buarque, "Erotic City" di Prince o "Simply Beautiful" di Al Green, non è giustificabile in alcuna maniera, per quanto ci si possa dare pose da intellettuali, queste versioni non fanno altro che spingere l'ascoltatore di gran lena a riascoltare le originali.

Insomma se siete fan accaniti di Lindsay è probabile che questo disco dal vivo possa in qualche modo perverso interessarvi (anche se - a parità di scarsa ascoltabilità - siamo ben lontani dal fermento creativo dei DNA), se invece siete alle prime armi statene alla larga: rischiate di percepire Lindsay come un bolso professore che si diverte a storpiare la musica popolare, con aria snob e compiaciuta (ossia l'esatto opposto della figura rappresentata dall'anarcoide cantante-chitarrista a inizio carriera). Il CD in studio è invece una valida introduzione, benché incompleta e fiaccata dal titolo altisonante. 

Inutile girarci intorno: si poteva e doveva fare di meglio.

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