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R Recensione

6/10

Breton

War Room Stories

Il botto provocato dalla creatura Breton – almeno secondo le previsioni del sottoscritto – avrebbero dovuto sentirlo ai quattro lati del globo. Il loro esordio - Other people’s problems - era un tourbillon artistico di immagini e suoni, solo apparentemente veicolati per un cote più esigente di ascoltatori ma in realtà metabolizzati finemente per il grande pubblico. Poi, al secondo appuntamento, quando ti aspetti che la deflagrazione del successo e della consacrazione misuri proporzioni atomiche, ti ritrovi davanti al fatto compiuto: più che l’effetto Enola Gay/Little Boy, con questo secondo album, i Breton rischiano di far scoppiare la dinamite farlocca della Acme.

War room stories si separa totalmente dalle ispirazioni precedenti gettando l’ancora su mondi convenzionali e troppo asettici. Forse presi dal peso del sophomore, forse scoraggiati da un successo non proprio travolgente, i nostri si buttano anima e corpo nell’approccio più determinista e matematico cercando la ricetta semplice per il brano immediato. Anche se, paradossalmente, è proprio nella freddezza asettica di certa elettronica che loro riuscivano a far emergere l’aspetto più impulsivo e passionale, quello che riesce a canalizzare il giusto mood nei brani.

Tanto per intenderci: è svanita la genialità che aveva confuso tutti - stampa internazionale compresa - convinta di trovarsi di fronte ad un tentativo di efficientamento del classico indie rock alle esigenze elettroniche, quando invece era esattamente il contrario: una band indietronic col vezzo da rockettari.

War room stories è la ricerca del linguaggio più icastico, della sintesi più immediata e del crollo di qualsiasi barriera artistica in favore della catalogazione a tutti i costi. E chissà che dietro all’apparente amnesia non vi siano fattori più o meno incisivi. Primo fra tutti lo sfratto dai Bretonlabs - storico laboratorio che ha dato i natali a tutto il progetto - che ha costretto i cinque ad una diaspora coatta dai quartieri Londinesi di Elephant & Castle alla volta della storica Funkhaus di Berlino, memorabile sede della Rundfunk der DDR, radio della Repubblica Democratica tedesca.

Ma cortina di ferro a parte,qui si rimane in balia di un moto ordinario che su Envy (primo singolo dell’album) mostra l’ attuale stato dell’arte del gruppo: poppizzazione delle ritmiche che virano verso il mathrock d’antan, orpelli elettronici che interloquiscono con i riff di chitarra e la voce di Roman Rappak che per l’occasione sembra trafugata da un take di Holy Fire dei Foals.

Un processo di sterilizzazione che non ha contaminato in toto il progetto, lasciando dei piccoli spazi diafani in cui emerge ancora il lato più catchy della band. Della serie: non tutto è perduto. Ed è in quegli anfratti ristretti (S Four) che si assaporano gli archi della Macedonian Radio Symphonic Orchestra, frapposti alle pulsazioni isteriche dub; o nelle palpitazioni violente dei synth (Got Well Soon) in pieno stile Metronomy, per finire con le geometrie ritmiche irregolari di Closed Category. Tutti frammenti rutilanti dello splendore che fu e testimonianza di una validità latente che oggi stenta ad apparire.

La ciclicità pericolosa di alti e bassi su War Room Stories mostra una band impreparata al suo secondo appuntamento.  Un vero peccato perché il potenziale ci sarebbe tutto ma stavolta è rimasto parzialmente inespresso.  E di questo passo – ci scommettiamo – il nome dei Breton si perderà nel mare magnum delle proposte discografiche attuali.

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