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R Recensione

6/10

Bulldada

What A Bunch Of Bulldada

Impenetrabili ed indecifrabili. Delle effimere avventure musicali generatesi dal cadavere eccellente dei Father Figure, quella dei Bulldada – che impegna i due chitarristi Mike Osso ed Eric Horowitz – continua a rivelarsi la più eccentrica, la meno facilmente inquadrabile. La prima e forse manchevole impressione che si ricava dall’impatto con “What A Bunch Of Bulldada”, autoprodotto sophomore del ruspante “Bulldada’s Tavern” (qui graficamente ripreso nella sgranata cover), è che la polifonia di grande respiro della band madre si sia irrimediabilmente frantumata in una serie di schizzi impressionisti da avanspettacolo, un insieme di piccoli esercizi di stile la cui non minore ambizione è quella di titillarsi in superficie con gli stereotipi di genere, svuotandoli tuttavia di significato dal di dentro. D’altro canto, la legge delle tre s – spezzettamento, sarcasmo, schizofrenia – richiama inequivocabilmente Captain Beefheart: musica di complessità inaudita resa (fintamente) potabile, musica leggera complicata all’inverosimile.

Qualcosa di analogo succede per i dieci brani di “What A Bunch Of Bulldada”, creazioni disfunzionali nella terra di nessuno fra prog, glam e southern-blues (tutto vero). Quello più lungo, “The Men Of Longpipe Downstairs”, non arriva ai quattro minuti ed è comunque uno dei meno interessanti: un boogie à la Steely Dan dall’estroso solismo vagamente zappiano. La famigerata mascella cascante si materializza almeno in un paio d’occasioni, vuoi per la bravura tecnica dei musicisti all’opera – l’ipercinesi novantiana travestita da prog d’antan di “Tell Silicon Valley They Can Keep Their Liberalmobile”, il blues tinto fusion della cartoonesca “Get That Wizard Away From My Child” – o per l’uso postmoderno di alcuni artifici retorici – le incredibili striature AOR di “USA Howdy Doo Boogaloo” fanno sorridere solo a ripensarci –, ma è come se il crinale fra divertissement e operetta morale non fosse mai stato così labile. Ci si perde pertanto in abbozzi ingiudicabili (“4th Christ Of Ypsilanti”, “22nd Century Yahoo Answers Man”), finendo intrappolati nelle convenzioni che si credeva di aggirare (“The Texas Secessionist Blues”) e irrompendo disinvoltamente nei territori del cattivo gusto (“Bulldadian Senate Of Progressive Rock”).

Epilogo: si finisce col volerlo apprezzare, senza poterlo davvero fare. È lo scotto da pagare per chi si appunta medaglie d’arguzia su di un’uniforme non adatta allo scopo. Se seguite i progetti degli altri fuoriusciti, molto meglio “A Comedy Of Failures” dei Terzo, nuova casa acustica del violinista Taka Aochi.

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