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R Recensione

7/10

Io Monade Stanca

Three Angles

In una famosa favola di Lev Tolstoj, pervengono a colloquio un cieco ed un vedente. Il cieco chiede al proprio intermediario di che colore sia il latte. Il latte, si sente rispondere, è bianco, come la carta. Ciò significa, domanda il cieco, che il bianco fruscia sotto le mani come la carta? Non esattamente, riprende il vedente: il latte è bianco come solitamente è bianca la farina. Quindi il bianco, ribatte il primo, è tenero e friabile come la farina? No, insiste il secondo: il bianco è bianco come una lepre bianca. Allora è soffice e lanuginoso come una lepre!, conclude trionfale il cieco. Sconsolato riprende il vedente: bianco è bianco... come è bianca la neve. Ma freddo proprio come la neve?, s'interroga ancora il cieco. Per quanti esempi il vedente riportasse, in nessun modo il cieco riuscì a capire quale solesse essere il colore del latte.

Così come chi è privato della vista può solo immaginare, ricondurre e convertire alla propria limitata esperienza sensoriale ciò che rimarrà per sempre fuori dalla percezione, così è tecnicamente impossibile cercare di istituzionalizzare l'anarchia. Aut aut. Tuttavia, se il fine è irraggiungibile, non altrimenti si può dire dei tentativi che si possono mettere comunque in atto per cercare di ammorbidirne la forma. Altresì detto: stolto è chi pretende canzoni da quei tre allegri cervelli schizoidi che sono gli Io Monade Stanca, un chissenefrega grande come la Kamčatka urlato a pieni polmoni dal Cuneese (ve lo ricordate il Canalese Noise, sì?). Insomma, non moriremo tutti democristiani, ma a darci un attimo una regolata non c'è nulla di male. E bene, benissimo lo hanno compreso i tre giocolieri pedemontani che, incredibilmente, riescono a suonare più controllati senza cedere un grammo del loro dadaismo surreale al compromesso. Ovvero: “Three Angles” non sarà il candidato perfetto al Disco per l'Estate, eppure...

...eppure vale la pena scoprirla, ed approfondirla, la differenza che come un sottile solco separa questi brani dagli schizzi futuristi di “The Impossible Story Of Bubu”, o della maestria di costruire una reggia sul litorale di Jesolo. Qui ci si sposta, come dire, un po' più verso l'entroterra. Come? In bici, chiaramente, con i Radiohead in cuffia sparati su una distonica serpentina math e rifratti alla maniera del post rock d'altri tempi: e birichini siamo tutti noi che continuiamo ad ascoltare questi groove funk in salsa exotica spremuti da distorsioni e malignità noise, non appariscenti e fracassoni come in passato, ma comunque efficaci e mai banali. “90 Gradi” è un anthem punk preso a schiaffi in faccia da una sezione ritmica fugaziana e da una chitarra che svirgola riff lizardiani in parabole ancora più sbilenche dell'originale: la deforme messa doom di “Ma Grandmère Est Méchante” è intervallata da una lunga e stratificata sezione Tortoise, tra arpeggi, armonici ed epici accostamenti di semitoni sfregiati da un approccio geometrico che, questo sì, può definirsi compiutamente Io Monade Stanca; “Vivaldi” addirittura svariona demenzialmente Minutemen, su un tempo così quadrato da far impazzire Pitagora di gioia.

Va tutto bene, è tutto bellissimo, mugugnano loro a metà scaletta in una math-wave sciancata e tisica che demolisce i Don Caballero nei Wire. Hanno proprio ragione.

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