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R Recensione

7/10

Marillion

Best.Live.

I Marillion sono uno di quei gruppi che più di altri si sono trascinati dietro un  (ingiustificato) fardello di stereotipi: un fardello talmente pesante da frenare gli entusiasmi di chi, fra gli appartenenti alle nuove generazioni di musicofili, fosse già incline ad estraniarsi da una qualsiasi curiosità ad entrare un attimo più a fondo nella lunga discografia della storica formazione inglese.

Nati in pieno periodo new-wave, i “primi” Marillion – quelli capitanati dall’ex-boscaiolo scozzese rispondente allo pseudonimo di Fish, dalla vocalità caratterizzata da un approccio teatrale e tesa a confrontarsi con quella di Peter Gabriel e Peter Hammill – certamente si rifacevano all’immaginario musicale di un decennio prima ed in particolare ai mondi sonori di Genesis, Pink Floyd (almeno nei lirici assoli di chitarra) e Camel risultando, a coloro che consideravano definitivamente tramontato l’ideale progressivo a favore di ben altre esperienze innovative meno ingombranti e barocche, decisamente intollerabili.

Eppure anche all’epoca, a ben vedere e a ben sentire, quello dei Marillion non era solo un citazionismo privo di autentica ispirazione: la loro poetica irruenza, che faceva talvolta rima con una aggressività strumentale, non era del tutto accostabile alle bucoliche e classicheggianti atmosfere del Prog più romantico. Inoltre la loro esistenza ha avuto il grande pregio di radunare sotto una bandiera comune le schiere di quegli adolescenti che per limiti di età non avevano potuto vivere in diretta la “Grande Stagione del Rock Anni ‘70” e che, essendo innamorati di quelle sonorità, proprio non ce la facevano a sentirsi di casa con digressioni synthetiche e che procedevano al ritmo di quelle batterie elettroniche che scandivano la musica che girava attorno nei primi Eighties. Certo, essendo stato io stesso fra quelle fila e con il senno di poi, non è inverosimile che all’epoca qualche discografico furbastro abbia fatto tesoro di giovinastri così retrò e pronti a identificarsi più nel passato che nel presente, plasmando ad hoc  una serie di gruppi pronti a essere massacrati dai media pur di incarnare un sogno sotto molti aspetti giustamente sorpassato eppure così ardente nel cuore di teenagers idealisti e pronti ad afferrare ogni occasione di aggregazione per trovare un senso di identità al di fuori della contemporaneità.

I Marillion, più di altri, per alcuni anni fecero pulsare quel “cuore sacro” non corrotto dalla modernità, anche se le dosi di synth non comparirono di certo in dosi inferiori rispetto a quelle di band come gli Ultravox. Ad ogni modo i Marillion non furono solo questo, o meglio non furono solo questi. E già, perché con il cambio della guardia nel ruolo di frontman (a “Clutching At Straws” del 1987, ultimo album in studio con Fish alla voce, seguì nel 1989 quel “Seasons End” che sancì l’ingresso in formazione di Steve Hogarth), ogni cosa si trasformò: non credo esista alcuna altra “storia della musica” che contempli una tale metamorfosi con il permanere in line-up di 4/5 dei membri originari. I Marillion non cercarono un rimpiazzo che potesse continuare a mimare la teatralità di Fish: semmai focalizzarono la loro attenzione su qualcuno dotato di una forte personalità, di una solida capacità di contribuire al songwriting e che fosse praticamente l’antitesi di tutto ciò che ogni loro fan si sarebbe mai aspettato.

Un taglio netto col passato. Il tastierista Mark Kelly, in particolare, dismise ogni inclinazione riconducibile allo status di keyboard-wizard tipica dell’universo progressivo, divenendo un raffinato musicista più attento alle atmosfere e ai ricami che non a virtuosismi decontestualizzati. Credo che i fischi che si prese Hogarth nel primo tour dell’era post-Fish, pochi altri se li presero: non posso dimenticare cosa fecero ragazzi truccati come il corpulento ex-cantante in quel Tendastrisce, nella tappa capitolina della tournèe per “Seasons End” … ad ogni movimento del cantante corrisposero grida di disapprovazione, persino quando si trovò ad interpretare il repertorio precedente al suo reclutamento: si vedeva proprio che quel ragazzotto elegante, quasi un dandy, istintivo ma anche profondamente introspettivo, proprio non ne voleva sapere di essere solo un imitatore.

Ci volle tempo prima di riuscire a trainare la band e i fan (forse nuovi fan) dalla sua parte, all’interno della sua prospettiva musicale: una prospettiva che, con gli anni, ha dimostrato di saper raggiungere risultati creativi che, ben lontani dal lambire nuovamente territori genesisiasi, ha piuttosto toccato (e mescolato fra loro) esiti non dissimili da quelli – immaginandoli disposti lungo un asse temporale – di gruppi come Beatles, Roxy Music, XTC, The Blue Nile, The Cure, The Church, The Waterboys, Talk Talk, Crowded House, Mercury Rev , Radiohead, Massive Attack, Coldplay, Elbow. Quello che ascoltiamo in questo doppio album, dal titolo piuttosto esplicito e frutto di una accurata selezione fra l’enorme mole di registrazioni effettuate dal quintetto fra il 2003 al 2011, è una sorta di concerto ideale (forse mancano episodi decisamente non trascurabili, ma non si può avere tutto nello spazio di due dischetti, seppur riempiti zeppi), nel quale l’unica concessione al periodo Fish è rappresentata dalla sequenza Hotel Hobbies/Warm Wet Circles/That Time Of The Night (da “Clutching At Straws” e perfettamente cantati da Hogarth, anche se solitamente poco incline a prestarsi alla rilettura degli album che hanno preceduto il suo arruolamento).

Per il resto abbiamo una carrellata di molti fra i momenti più alti della discografia post-1989, fra i quali evidenzierei delle vertiginose esecuzioni di King e Out Of This World (da quella gemma di “Afraid Of Sunlight” 1995), This Strange Engine (una delle vette più elevate del catalogo marillico, tratta dall’omonimo album del 1997), Somewhere Else (ispirata title-track del lavoro uscito nel 2007), The Invisible Man e Neverland (dall’eccellente “Marbles” del 2004, disco che ha segnato un ritorno ai favori della “base”, dopo una tripletta di episodi non interamente esaltanti).

Dispiace un po’ vedere ridotto alla sola Hard As Love il contributo del primo capolavoro dell’era inaugurata dal nuovo leader, ossia “Brave” (1994). I Marillion sono indubbiamente un gruppo che nella dimensione live trova la sua massima espressione, non badando al dispendio di energie per tutta la durata della performance e dimostrando capacità strumentali che, pur non essendo quelle di live-band del calibro di King Crimson o Phish in grado di gestire con “flessibilità” il proprio materiale aprendolo a improvvisazioni, sanno comunque veicolare – nel rispetto della forma originaria dei pezzi –  rabbia interpretativa, impeto, perizia e grazia. Gli stessi membri dei Marillion non hanno mancato ammettere di non essere mai risultati “affascinanti” nell’ottica delle grandi testate web/TV/stampa che si occupano della musica “di tendenza”.

Lo stesso Steve Hogarth ricorda, a proposito della sua “grande scelta”, quando nel 1989 gli fu proposto di entrare nei The The di Matt Johnson e contemporaneamente di sostituire Fish nei Marillion: ho avuto l’opportunità di passare dalla band più “hip” del momento a quella considerata più sfigata. E già, perché, come scrisse Mick Wall di Q e Mojo, probabilmente i Marillion sono il gruppo più incompreso e oggetto di malintesi di tutto il pianeta.  Nel 2007, Stephen Dalton del Times, aveva ben intuito la questione parlando di “Somewhere Else”, dato alle stampe proprio in quell’anno (il disco venne descritto come tra i migliori in assoluto fra quelli pubblicati nel corso del suo mese in uscita), e tratteggiando un profilo critico della formazione: i Marillion sono stati sempre percepiti dai giornalisti “che contano” e dai lettori da loro influenzati come dei vecchi babbioni proggaroli bombastici, rendendo definitivo un giudizio che ha avuto come punto di origine l’opinione di persone, “addette ai lavori”, che non hanno dedicato alla musica del combo inglese neppure un qualche ascolto mirato a cogliere l’evoluzione della loro vicenda artistica.

Ben sappiamo come tali comportamenti generino, all’esatto opposto di questa prospettiva, la creazione di icone e di schiere osannanti già alla pubblicazione di un singolo EP da parte di gruppi resi oggetto di devozione popolare da parte dei “siti bene” che dettano legge da oltremanica. Io sono ancora ben felice di essere dalla parte di realtà musicali che, come i Marillion, hanno sparso seminali tracce di genialità “indipendentemente” da quanto hanno poi raccolto. Talvolta fare musica “indipendentemente” è più coraggioso che fare musica “indie”. Come lo è anche ascoltare musica “indipendentemente” da confini e luoghi comuni.   In tal caso “Best.Live.” saprà offrirsi come un ottimo compendio per catturare l’essenza dei Marillion. (Per la cronaca: in questi giorni i Marillion hanno portato a termine con successo il tour nordamericano presentando in anteprima alcuni brani del loro “Sounds That Can’t Be Made” che verrà rilasciato a Settembre).

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Utente non più registrato alle 18:30 del 11 novembre 2012 ha scritto:

Nel corso del 2012 la band proseguirà la scrittura e la registrazione del nuovo album che uscirà alla fine dell‘anno, seguito da un tour che toccherà anche l‘Italia.

Un evento “doppiamente” unico: un concerto diviso in due serate consecutive in esclusiva nazionale dalla scaletta e dall’atmosfera completamente diverse.

Il 22 e 23 gennaio 2013 all'Alcatraz di Milano.