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R Recensione

4/10

Nichelodeon

Il Gioco Del Silenzio

Mi è venuta, per un attimo, la tentazione di provocare fino in fondo e di parlare del nuovo parto dei Nichelodeon così come, con tutta probabilità, vorrebbero fosse realmente descritto: filosofando. Discutendo di massimi sistemi. Interpretando il ruolo di moderno radical-chic in ammirevole sprezzo del pericolo. Riempiendo una pagina bianca di evoluzioni verbali, scarti pindarici, neologismi. Odiando il volgo profano, e tenendomene lontano. Poi mi sono detto che, forse, non ne sarebbe valsa la pena. Perché il gioco del silenzio, ve lo ricordate?, lo si impara da molto piccoli, quando la testa è riempita da faccende molto più frivole ed interessanti di queste. C’è un bambino che rimesta un gessetto colorato fra le mani, dietro la schiena, dopodiché invita con un gesto uno qualsiasi dei suoi amici ad avvicinarsi e a tentare la sorte: in che pugno chiuso sarà nascosto l’oggetto del desiderio? Il tutto senza parlare, chiaramente, anche se ciò costringe all’adozione di una mimica, a tratti, sinceramente comica. Proseguendo sulla linea di una pungente parafrasi, oserei dire che in questo disco, di comico, non ci sia niente. Anzi: viene da sospettare che i Nichelodeon abbiano saltato a piedi pari l’età dell’infanzia.

Qualche mese fa ci siamo occupati direttamente di un altro collettivo artistico con sede a Ferrara, gli Aidoru, che sull’asse di un post rock umorale cercavano di intraprendere le strade, impervie, della maggior contaminazione e della più sottile rarefazione possibili. Anche in quel caso, il risultato aveva convinto a metà (mancanza di un supporto video in aiuto alla controparte sonora?). Per “Il Gioco Del Silenzio”, invece, si mette in moto una vera e propria macchina di collaborazioni interartistiche, divise tra musica, pittura, grafica e fotografia (citare la lunga lista di nomi fornita è impossibile) che, nelle intenzioni originarie dei componenti del gruppo, dovrebbe dar maggiore ordine e forma – completare, in un certo senso – alle destrutturazioni anarcoidi sistematicamente inferte a settantotto minuti di spropositata gravezza intellettuale (in questo Paese ancora non si è capito che riempire coattamente tutto il minutaggio disponibile su cd non è imposto da nessuno). Nume tutelare e ideale la ispiratore è Demetrio Stratos, indimenticabile leader degli Area, la cui sperimentazione vocale e le spericolate traiettorie di genere sulle quali dirigere la propria arte sono i riferimenti fissi e pedissequi della band. Fine delle affinità e della bava alla bocca.

Dentro canzoni che sono, in realtà, esacerbati manifesti d’avanguardia statica, i Nichelodeon pigiano l’acceleratore sul sovraccarico: di ispirazione, frammenti, citazioni, cambi improvvisi, voltolamenti teatrali, melodie, cacofonie. Tutto ed il contrario di tutto (come mi piace citare Capezzone) riunito nel sacro nome dell’arte superiore. E che i ragazzi non siano stupidi, insomma, lo si intuisce abbastanza a naso, essendo “Il Gioco Del Silenzio” imbevuto di un’aleggiante, irritante superiorità mentale. “Fame” potrebbe dedicarsi compiutamente alla sua anima swing, ma nemmeno ad un terzo viene travolta da un cortocircuito free che si propaga, da lì in seguito, a lunghezze regolari. “Fiaba” riunisce l’anima tetra dei Residents più barocchi con le tentazioni sinfoniche dei Pennelli Di Vermeer, finendo semplicemente col perdersi a metà. “Claustrofilia” indovina l’impatto, dissonante e stratificato su registri di fisarmonica e violino elettrico, ma è una fatica relativamente dissipata nel confronto con “Ombre Cinesi”, ciò che un gruppo con ambizioni anche solo vagamente assolute – nel senso primigenio di sciolte da vincoli – non dovrebbe mai commettere l’errore di scrivere. E si potrebbe andare avanti ancora per molto, infilando dentro il free jazz di “Apnea” con gli orientalismi de “Il Giardino Degli Altri”, o il crescendo lirico di “Amanti In Guerra” (piano, vari registri vocali, disturbi elettronici) con la tarantella a singhiozzo di “Lana Di Vetro”.

Avere un disco in mano da più di un mese ed non essere riusciti ad ascoltarlo difilato più di una sola volta. Statistica impietosa. La reazione ad un generale, estremo appiattimento culturale nella musica “bene” italiana, fra questi solchi, è un generale, confuso, estremo tentativo di arroccarsi su cittadelle di pensiero astratto ed elitario completamente chiuse in sé stesse: la differenza non è poi molta. Se volete davvero divertirvi con dischi tricolori, complessi ma non necessariamente avviluppati attorno ad un’idea di ridondante tragicità a qualsiasi costo, ripescatevi gli eccellenti Dilatazione (toh… un altro collettivo!) ed il loro “The Importance Of Maracas In The Modern Age”.

Per i Nichelodeon, un solo appello: non celebrate il definitivo funerale della concretezza.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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Cas 7/10

C Commenti

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Cas (ha votato 7 questo disco) alle 14:03 del 25 agosto 2011 ha scritto:

Che crudele che sei stato Marco! ;D

Certamente si tratta di un lavoro prolisso, eccessivo per certi versi. Però la cura con cui è composto, il tasso di sperimentazione e di registri/stili utilizzati (dalla romanza, al prog, al jazz, alla contemporanea, assieme a rimandi ai momenti più alti e complessi della musica rock contemporanea, canterbury su tutti) impongono -a mio avviso- un giudizio diverso. Un lavoro ambizioso e poco consono agli standard odierni, capace di sistemare le parti di cui è composto in soluzioni altamente personali e azzardate (sentire Fame). Un disco intriso di sperimentazioni armoniche (in Malamore e la Luna la divagazione strumentale di piano-clarinetto e contrabbasso è splendido) e timbriche, di vocalizzi notevolissimi, di vortici strumentali multisfaccettati e caleidoscopici. Notevoli anche i brani più ermetici come Claustrofilia (un nugolo di rumorismi, incastri, ripiegamenti) e Ombre Cinesi (una destrutturazione sonora totale). Non per tutti, come già detto forse eccessivo, ma si tratta di una roba di gran classe.