Peter Gabriel
Peter Gabriel 3
La foto di copertina elaborata dal famigerato team Hipgnosis, una polaroid trattata con graffi e gomme da cancellare durante il processo di sviluppo in camera oscura a deformare metà del volto del protagonista, una copertina da fissare con meraviglia, questa la cover del cosiddetto Melt album di Peter Gabriel, meglio conosciuto come Peter Gabriel 3, in realtà album senza titolo come i due precedenti e come sarà per il successivo quarto. Tutto molto complicato.
Sempre più lontano dagli ex compagni Genesis, con due onorevoli album solisti alle spalle, in verità non pienamente soddisfacenti causa eccessiva ridondanza di alcune soluzioni, ispirazione latente in alcuni frangenti, produttori sin troppo invadenti (Ezrin/Fripp), affida la cabina di regia per la sua terza fatica in studio a Steve Lillywhite coadiuvato dall'ingegnere del suono Hugh Padgham, oggi dinosauri del rock ma allora brillanti cacciatori di suoni non stereotipati.
Rivoluziona di sana pianta il suo stile compositivo, registra su una mediocre batteria elettronica minimali ritmi etno, percussioni di varia provenienza, rumorismi random, da far scorrere come base mantrica per trovare la giusta ispirazione al piano, quando poi Larry Fast si presenta in studio con un rudimentale sintetizzatore Fairlight per Gabriel sarà una rivelazione divina dalla quale non si separerà più negli anni a venire.
Altra novità che segnerà inevitabilmente il sound del disco è l'assoluto divieto di uso di piatti della batteria, creare spazio nello spettro sonoro è la motivazione che ne darà lo stesso Gabriel, fatto sta che chi prenderà posto dietro i tamburi dovrà per forza di cose rivedere il proprio approccio allo strumento: nelle prime due tracce toccherà a Phil Collins far vibrare le bacchette, il resto del disco è affidato a Jerry Marotta.
La linea vocale cadenzata e rauca apre le danze per uno dei brani più tetri della raccolta, Intruder, thriller gotico dagli accordi chitarristici disadorni, diverrà una delle perle nascoste, almeno al grande pubblico, del repertorio di Gabriel; la successiva No Self-Control saltella in punta di piedi tra vibrafoni/marimba e ghirigori chitarristici in stile frippertronics, la voce spinge con naturalezza disarmante supportata da un invidiabile equilibrio del diaframma, il suono della batteria è poderoso, carico di eco ma strozzato dal noise gate (un compressore ricavato casualmente da Padgham) prima di liberarsi in tutte le sue onde, praticamente il marchio di fabbrica del disco, cupo e marziale dall'inizio alla fine.
Start è uno strumentale vicino al mood di Bowie e Eno della trilogia Berlinese ed introduce uno dei brani più conosciuti della discografia del nostro, I Don't Remember. Vocalizzi iniziali in Gabrielese, Robert Fripp ospite alla chitarra, l'unico brano in cui compare Tony Levin al basso (suonato con gli stick), si può fare rock anche senza sudare, incredibile ma vero.
La partenza di Family Snapshot è la cosa più vicina alla classica forma canzone di Gabriel, piano e voce conducono ad un crescendo melodicamente articolato e reso impervio da un ritmo turbinoso, trattasi di magia pura, senza retorica.
And Through The Wire si muove energica e danzereccia con Paul Weller ospite alla sei corde, molto più particolare Not One Of Us: chitarra ritmica di David Rhodes in evidenza, voce in gran spolvero, le liriche si soffermano sulla difficoltà di comunicazione e accettazione verso tutto ciò reputiamo estraneo al nostro sentire comune, finale movimentato con rullate impetuose del grande Marotta.
Games Without Frontiers, singolo di buon successo, ospita la voce di Kate Bush (presente anche in No Self-Control) anche se impiegata in modo marginale: è una gustosa pop song del tutto inusuale con chitarra disturbata, fischiettini da boy scout ed il synth ammiccante di Larry Fast che sul passaggio "if looks could kill they probably will" supera se stesso. Lead A Normal Life procede minimale e meditativa parente stretta del Brian Eno più criptico. Biko è il brano di un'intera carriera: influenzato in parte dall'ascolto casuale di Dollar Brand, musicista afro jazz, ma soprattutto dagli avvenimenti di cronaca che un paio di anni prima portarono il nome di Stephen Biko -tra i fondatori del Black Consciousness Sudafricano- sulle prime pagine dei quotidiani. L'opus, per dirla con le parole del protagonista, è un attestato di stima ed omaggio sincero ad un leader giovanile abile e colto ucciso in circostanze misteriose nel settembre '77; aperto dai canti funebri sudafricani registrati sul posto, il brano è dominato da una traccia percussiva elementare e senza variazioni per la sua intera durata, break di cornamusa, drone di synth e poco altro saranno sufficienti a farlo entrare nel mito; promossa dal grande riscontro di consensi ad inno anti apartheid per eccellenza, Biko sarà l'inizio del nuovo cammino di Peter Gabriel sempre più affascinato dalla commistione pop-rock-world tecnologia ed impegno sociale, prima che il tutto diventi furbescamente strumentalizzato.
"Peter Gabriel 3" è un'entrata trionfale negli anni 80, imprescindibile.
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