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R Recensione

8/10

Scott Walker

Climate Of Hunter

“Mi sento l’Orson Welles dell’industria musicale. La gente vuole da me la cornice, ma nessuno mi finanzia il quadro…” (Antefatto e pensieri immaginari di un ”30th Century Man”).

 

Scott Engel e Scott Walker erano gemelli siamesi uniti e indivisibili, due corpi e un’anima in croce nel senso più fatalista possibile, praticamente un remake che sconfinava nel melò fratricida del Vecchio Testamento. Un collasso d'identità? Una guerra dei nervi versione Alì-Foreman a Kinshasa? Fuochino. Questi annaspavano lacerati dal bisturi dell’odio che psicanalizza gli “Inseparabili” di Cronenbergh, perdio. Quando Scott W. trascina i comprimari Brothers John Maus e Gary Leeds al grande successo tra hit nelle top ten inglesi e giovani femmine in ebollizione ormonale il vero “fratello” Engel scalciava il suo rancore verso il pop confidenziale da classifica, i lustrini, le luci e gli applausi finti delle scenografie televisive, lo specchio distorto della fama e dello show-biz. Eravamo a ridosso dell’emancipazione solista di Scott W. nei suoi classici album numerati che idealizzavano Sinatra e Jacques Brel nella foschia autunnale dell’esistenzialismo europeo, percorso culminato in un quarto volume che diverrà presto modello stilistico e vocale per tanti crooner-baritonali eccellenti (Bowie in primis ne rimarcherà sempre l’enorme influenza).

Intanto gli allegorici giorni della Swingin’ London finivano nel cestino della cultura pop, gli anni Sessanta si erano auto-cannibalizzati in un sogno infantile e l’insofferenza di Scott E. per il rivale di sangue cresceva in modo esponenziale al proprio fallimento, ai demoni che s’agitavano riottosi dalle viscere. Il post-’69 volgeva lo sguardo sul crinale del burrone e il decaduto Scott W. ci guardava dentro con istinto suicida, mano nella mano ai fantasmi venuti a galla nel fiume d’alcool delle bettole di Amsterdam. Tutto ciò che rappresentava l’ex teen-idol era un’immagine sfocata, fuori sincrono, tutta la bellezza del “Boy Child” e dei suoi tratti angelicati diventavano un inutile orpello da divorare con la furia autodistruttiva dei Grandi Perdenti. Sfiorivano le idee con la zazzera bionda, e il passato poteva pure sfanculare nel bel malto stagionato dell’ultimo scotch. Engel aveva avuto la sua rivincita. I buchi neri della decade successiva furono per Walker-Engel molto meno divertenti della fauna almodovariana di Pappi Corsicato, uno stolido sprofondare nell’anonimato di flaccida routine pop-country e balorde rimpatriate con i fratelli dimenticati. Null’altro che una carràmbata discografica di dubbio gusto, a essere generosi. Tenete a mente la debosciata coattagine a nome Walker Brothers sulla copertina di “No Regrets”, è l’atto finale di Scott nello sfregiare la propria sofisticata icona, il punto di non-ritorno che ogni buon artista dotato di sufficiente autostima dovrebbe evitare come la peste.

Poi nel 1978 dell'allievo che canta accigliato “…We can be heroes just for one day…” avviene l’imponderabile e, seppur dividendo ancora i solchi con il modesto talento di Maus e Leeds (le prime magnifiche quattro tracce al Nostro, le briciole agli altri due), ecco che Lazzaro si rialza accarezzato sulla testa da Gesù Cristo e il figliol prodigo torna a occupare la scena indegnamente usurpata dall’accidioso Engel. “Nite Flights” scuote i tanti discepoli a ribadire la statura del “brother one”, l’uomo caduto sulla terra per scrivere gemme di art-rock atmosferico chiamate “Nite Flights” e “Shut Out”, affilate dissonanze elettriche cavalcate dal timbro espressionista e cupo di Scott, così magnificamente immerse nell’attualità new-wave, così lontane e aliene da tutti i sinonimi dell’aggettivo “abitudinario”. Adesso che Brian Eno avrebbe fatto carte false per produrre in solitario l’artefice del monolite kubrickiano “The Electrician”, il coupe-de-theatre: il dark-dandy risorto torna in letargo, unico sovrano del suo misterioso eremo, e aspetta. Per ben sei, lunghi anni. Il 1984 non è stato (per fortuna) solo l’apoteosi dei new-romantic e del fondotinta rosa di Boy George ma anche l’anno di “Climate Of Hunter”, il sospirato ritorno di Scott Walker. Alla voce “artista” il mio pratico vocabolario tascabile scrive: 1) Chi, nel proprio lavoro , mostra qualità e produce opere superiori alla media. 2) Chi possiede una capacità speciale di comprendere il valore e il fascino delle cose. “Climate Of Hunter” calza a pennello su entrambe le definizioni, restituendo il genio nato in Ohio alle cronache musicali, finalmente libero d’esprimersi senza compromessi, senza gabbie asfittiche a mutilarne l’essenza atemporale.

Sostenuto dalla parca produzione di Peter Walsh, famoso per i Simple Minds di “New Gold Dream”, Scott apre l’ipnotica “Rawhide” fra sibili e rumori sinistri, una seduta spiritica di conclamata decadenza a invocare il regale baritono sul basso notturno di Mo Foster, dipinge con astrazione magritteiana la suggestiva istantanea psych-jazz “Dealer” e crea il perfetto oggetto wave-pop, che invano cercava il signor Jones di “Tonight”, nel dinamico singolo “Track Three”, con quei synth fluorescenti, la fuliggine dei solo-rock di Phil Palmer e il drumming compatto di Peter Van Hooke a donargli equilibrio e forza (oltre che il soul-singer Billy Ocean ai cori, pensate). “Sleepwalkers Woman” e “Track Six” iniziano a enfatizzare una certa fascinazione di mr. Walker per il lato oscuro della forma canzone (la Morte Nera è sempre una forte attrazione nel cuore dell’eremita angloamericano), tra archi spettrali e desolate risacche atonali, una lenta discesa negli inferi personali dell’Autore, che si sofferma analitico sui recessi insondabili degli abissi umani ampiamente vivisezionati a partire dal magma sonoro di “Tilt” (1995). La secca sei corde acustica dell’ospite Mark Knopfler chiude la mezz’ora di “Climate Of Hunter” in un’ambigua ipotesi di Elvis desertico che cita Tennessee Williams, evocato in “Blanket Roll Blues” con la calma zen del reduce sopravvissuto all’alta marea della vita. Walker e Engel erano giunti assieme a riva, erano ormai lo stesso indecifrabile enigma e un unico, indivisibile Scott.     

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Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 6 voti.
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scottwalker alle 11:13 del 15 marzo 2012 ha scritto:

MI PIACEREBBE ASCOLTARE CLIMATE HUNTER E TILT!

Paolo Nuzzi (ha votato 8,5 questo disco) alle 14:32 del 27 gennaio 2016 ha scritto:

Gelido capolavoro, che contiene i prodromi della musica apocalittica ed imprendibile a venire (Tilt, The Drift, Bisch Bosch). Complimenti al recensore.