Spoon
Transference
Al settimo disco si può dirlo con una certa tranquillità, anche se si poteva dirlo già al secondo: gli Spoon sanno scrivere pezzi pop come pochi sanno fare (tre su tutti: "The Underdog", "I Summon You", "I Turn My Camera On"). Pezzi istantanei, radiofonici, killer, che stuzzicano subito, senza la necessità di riascolti. È per questo che stanno nelle colonne sonore di mezzi telefilm damerica, da O.C. a Scrubs passando per i Simpsons, per non parlare dei videogame. E gli States li adorano con un culto nemmeno così di nicchia.
Il loro problema, se così vogliamo chiamarlo, è che non sempre gli Spoon vogliono scrivere quel pop. Anzi. Per lo più lo sabotano: la loro arte (art-pop, allora?) sta nel deviare laccessibilità melodica e nello sgambettare leasy-listening più limpido, soprattutto grazie a un sapiente lavoro in studio e a una scrittura volentieri laconica. Qui, più che altrove. Rispetto al più recente Ga Ga Ga Ga Ga, in particolare, risalta la volontà di scrivere canzoni meno dirette e rifinite, meno verrebbe da dire canzoni.
Basterà prendere Is Love Forever?, traccia due, per rendersene conto: un ritmo quadrato, chitarre belle secche, voce ridotta a pochi interventi, struttura del tutto anticonvenzionale, durata di due minuti. Gli Spoon, in Transference, esplorano la tecnica dellaborto. E così quasi tutto il disco si costruisce su schizzi volutamente non completati, con unabbondanza inusuale di parti strumentali e un Britt Daniel particolarmente evasivo, attento a cercare la via di fuga piuttosto che la melodia perfetta. Daniel stesso ha parlato di un disco «più cattivo» dei precedenti, dove la maggiore cattiveria non è affatto da intendersi come abrasività sonora più dura (anzi, è vero semmai il contrario: in un mare di proposte lo-fi, qui la fedeltà è altissima, e nulla è rozzo o bilioso), ma piuttosto come volontà di non accontentare lattesa dellascoltatore con ammiccamenti catchy. Di voler sbagliare i gol a due metri dalla porta.
A un primo ascolto non è improbabile, per chi ha amato dischi come Kill The Moonlight (il loro apice?) o Gimme Fiction, rimanere delusi. Ma poi si intuisce che se gli Spoon non deliziano subito le orecchie, è perché hanno scelto di farlo in un secondo momento: i trucchi del mestiere, i quattro di Austin, li conoscono ormai troppo bene. E dopo qualche passaggio risulta difficile non apprezzare le venature soul di The Mystery Zone, Who Makes Your Money (Prince!) o Nobody Gets Me But You, dove la voce ruvida e raspante di Daniel sembra giocare a nascondino e dove il basso di Rob Pope prende un groove da dieci e lode. Electro-funk very cool.
È proprio la sezione ritmica a reggere Transference: il passaggio tutto drums-based tra Out Go The Lights e Got Nuffin (post-punk un po guappo, quasi degli Wire o dei Joy Division alleggeriti dalle pare) lo dimostra bene, così come molti incipit tutti batteria (sfizioso quello di charleston di Before Destruction) e linteressante sterzata di ritmo a metà di I Saw The Light, tutta giocata su una ruffiana successione armonica discendente. E pazienza se manca un hit sicura: Written In Reverse, col suo tiro rnr solidissimo, ci va vicina, e Trouble Comes Running la sfiora. Semmai cè la grezza elegia su piano di Goodnight Laura a pensarci: una ballad che potrebbe sembrare quasi parodistica, se non fosse così elementarmente bella.
E così si impara unaltra cosa: una tappa non memorabile nella discografia degli Spoon può essere comunque un buon disco.
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