Suckers
Candy Salad
Frenchkiss festeggia il recente approdo dei Bloc Party nella propria label, ma punta forte anche su una band che, due anni or sono, possedeva tutte le carte in regola (nell’ordinario marasma iperattivo di nuove uscite) per imporsi come new sensation del sostrato indie globale - pur guadagnandosi, ad ogni modo, un fedele seguito e buoni riscontri di critica. Di chi stiamo parlando? dei Suckers, naturalmente.
E del loro art rock/pop from Brooklyn (piccolo inciso: la grande mela sempre più protagonista in questo inizio anno, per vitalità della sua ‘scena’: Hospitality, White Rabbits, Frankie Rose solo per citarne alcuni di buona fattura), intriso di dinamismo tribale multicromatico (Wild Beasts, Lord Huron), estasi pop-folk (Grizzly Bear) in confetti psych (Yeasayer, MGMT), più attitudine da new wave nevrotica.
Laddove il debutto lo si ricorda colmo di creatività isterica e frenesia art (pur mantenendo salde melodie e strutture ritmiche, per linearità), “Candy Salad” mostra fin da subito una solidità interna maggiore, fatto di composizioni più addomesticate (radiofoniche? ma “Roman Candles” e “Martha” non difettavano, in questo senso), piene in termini di sound e meticolose nelle intenzioni. Una volontà di osare, esteticamente, diversa rispetto al recente passato, che ha condotto il trio newyorkese ad un lavoro più maturo – con i pro e i contro del caso –, grazie anche alla mano di Matt Boynton, in produzione.
Ed un certo sopravvento sul loro tratto istrionico (Modest Mouse docet) è riscontrabile già nell’opening track “Going nowhere” (a piene mani nel dinamismo di casa Akron Family), in cui, con slancio epico, i nostri innalzano un crescendo possente, dal flavour shoegaze. Epicità ‘altra’ evidenziabile anche nelle chitarre (à la Dirty Projectors/ St. Vincent) di “Charmaine”, e nell’andamento (moderatamente) ubriaco-spensierato di “George” (perché no? Super Furry Animals in catarsi electro tribale). La maniera in cui si gioca con le melodie, le ritmiche e le armonie vocali (i raddoppi di Quinn Walker e Austin Fisher) appare simile a quella di “Wild Smile”, con in più passaggi e incursioni elettroniche (in certi casi ad introdurre i pezzi) del tutto nuove.
Nel mezzo, adorabile il tiro jangle pop (Real Estate e lo stesso Mondanile solista) di “Bricks to the bones” (tra i brani più compiuti del lotto), l’ossessività – da accenno d'ibridazione math - di “Figure it out”, così come il ritmo cadenzato su tappeti di organo e cantato vagamente glam di “Chinese Braille” (con la sua splendida saturazione, nel climax), o nella cristallina esuberanza (di pieni e vuoti) di “Leave the light on”.
C’è da evidenziare un notevole calo qualitativo nella parte conclusiva del lavoro: dispersivo l’electro-rock (weird/space) liquido di “Fighter planes”; poco ispirato lo stanco andamento pianistico di “Roses”. Bene "Lydia", invece, e il suo rock nell’etere (di tastiere) – tra i refrain più appiccicosi dell’anno.
Se confronto è necessario, “Candy Salad” lo perde con “Wild Smile”. Ciò, ad ogni modo, non toglie davvero nulla alla peculiarità, e all'ottima fattura del materiale qui proposto dai Suckers.
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