The Darcys
AJA
L'etichetta Arts & Crafts è ormai un rassicurante sinonimo di qualità. Sotto la sua ala hanno trovato casa alcuni dei migliori artisti degli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda la nuova scena art-indie. Ed eccoci, per l'appunto, ai Darcys. La semisconosciuta (almeno in Italia) band di Toronto, con il sophomore omonimo del 2011 (in download gratuito, pratica replicata per questo AJA), proponeva un sound in grado di porsi più che dignitosamente in quel nuovo corso indie di cui abbiamo già avuto modo di parlare, aggiungendo agli ingredienti canonici piacevoli venature soul che arricchivano un piatto già oltremodo ricco: basti un singolo come Don't Bleed Me per comprendere il valore della proposta.
Passati pressoché in sordina e abbandonati dal cantante poco dopo la pubblicazione del secondo album i nostri non hanno però perso il coraggio, arrivando a concepire un'operazione azzardata, una sorta di ripartiamo da zero e giochiamoci tutto. L'immenso Aja degli Steely Dan (1977), quel capolavoro di precisione e raffinatezza pop-jazz, viene omaggiato -traccia dopo traccia- dalla band canadese, la quale -forte del passaggio al ruolo di frontman del chitarrista Jason Couse- si lancia in un confronto spiazzante che conferma un'abilità fuori dal comune nello stravolgere con meticolosa creatività il quasi quarantennale capolavoro. Un confronto impari, certamente, ma affrontato senza alcuna reverenzialità (seppur con tanto rispetto) dai Darcys.
Le atmosfere jazzy dell'originale sono sostituite da strati sonori espansi, chitarre lasciate sfrigolare sullo sfondo, ritmiche meccaniche e minimali, tentazioni post-soul. Niente funky e sincopi, quindi, in Black Cow, ma, procedendo sui solchi di una melodia indimenticabile, Couse e soci riescono a plasmare una creatura ibrida ed originale, del tutto trasfigurata nella coda incendiaria del finale, come un'ulteriore conferma della volontà dei nostri di voler fare piazza pulita dell'Aja che eravamo abituati a conoscere. Che dire quindi della titletrack, immersa in una soluzione dreamy dalla consistenza liquida, dove emerge insistente un intreccio improbabile tra War On Drugs e James Blake, mentre ancora una volta sono confermate le doti arrangiamentistiche della band di Toronto. I pezzi vivono infatti di vita propria, attorcigliandosi su intrecci di piano elettrico e pedaliere, passando dall'indie-rock nudo e crudo (Peg, irriconoscibile) al raffinato art-pop Radioheadiano (Deacon Blues). Tutto riuscitissimo, inutile dirlo, quando invece si sarebbe portati a pensare che la stazza degli esemplari originali avrebbe dovuto mettere in difficoltà una band abituata a lavorare su ben altra materia. E invece i Darcys ne approfittano, sperimentano, lasciano scaturire in piena soluzione di continuità quelli che, verosimilmente, saranno gli elementi caratterizzanti del loro nuovo corso.
Una nota a parte va infine dedicata a Josie, il brano che meglio, e forse in maniera più netta e promettente per il futuro, valorizza la non facile operazione di decostruzione e riassemblaggio: al piglio schietto del celebre brano viene sostituito un mood umbratile, sommesso, sognante. Un malinconico commiato souleggiante tutto giocato sui densi fraseggi delle tastiere e sugli intrecci vocali che contrappuntano la prestazione di Jason Couse.
Un biglietto da visita niente male (oltre che un buon motivo per andarci a riascoltare il capolavoro di Fagen e Becker) che fa presagire un roseo futuro per una band che sembra convinta a non mollare e dimostrare il suo valore. Bene così, e avanti tutta.
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