Muse
Black Holes And Revelations
Se continuano così i Muse passeranno alla storia come l’eterna band incompiuta. Non perché la loro carriera musicale sia stata finora deprecabile, anzi. Il problema è che manca sempre quella marcia in più, quel qualcosa che renda un disco davvero eccellente. Rimane perennemente l’impressione di una perfezione tecnica e stilistica sempre ad un passo, ma mai agguantata.
Il discorso valeva per Absolution e i dischi precedenti e continua a valere per Black Holes and Revelations: tecnicamente ineccepibile, eppure alla fine dell’ascolto rimane un vago senso di insoddisfazione che impedisce di rimanere entusiasti fino in fondo. Per quanto lo si ascolti e riascolti, quasi a farselo piacere a forza in tutti i suoi dettagli, alla fine restano i dubbi. Su tutti a Bellamy, reo di contaminare ottime parti strumentali con uno stile e un atteggiamento vocale e compositivo talvolta eccessivamente barocco e pomposo: esagera, il cantante-chitarrista-leader del gruppo, soprattutto nello sfruttare eccessivamente le sue (straordinarie) doti canore.
Per quanto sia infatti arduo trovare cantanti dotati di altrettanta intensità e passione, il problema è che mentre il gruppo continua a progredire incessantemente dal punto di vista strumentale lui resta lì, a sparare urla e ritornelli tecnicamente impeccabili, a tratti ancora emozionanti (Starlight), a tratti sapientemente moderati (Take A Bow), ma troppo spesso invadenti nei confronti di un suono che meriterebbe maggiore spazio. Un brano come Supermassive Black Hole, forte di un ottimo riff e di una decisa e roboante base ritmica viene rovinato proprio dal suo falsetto stridulo e magniloquente .
Stesso problema per Map Of The Problematiqué (forte invece di un elettro-prog moderno, quasi cibernetico, che pare a tratti un outtake dei momenti migliori della discografia dei Depeche Mode) e per Invincible, il cui culmine violento e psicotico non basta a controbilanciare il soporifero cantato melodico dell’introduzione.
Il problema della costruzione melodica è la grossa tara che si portano dietro anche altri brani come la saltellante Exo-politics (di cui ricorderemo probabilmente solo lo splendido assolo della parte centrale) e l’esotica City Of Delusion (ottimo il giro iniziale).
Soldier’s Poem è un lento che ricorda, fastidiosamente, i Queenanni ’80 più pomposi, più accettabile l’andatura spagnoleggiante, e quasi morriconiani, che introduce all’ottima accelerazione di Hoodoo.
La dimostrazione delle potenzialità del gruppo sta tutto in due brani: Assassin e Knights Of Cydonia. La prima è un bel prog-rockmetallico quasi heavy in cui finalmente a trovare un posto in primo piano sono le dissonanze e i riff stranianti e ubriacanti, frullati a velocità ipersonica alla maniera di Mars Volta e At the Drive in. La seconda è probabilmente il punto più alto del disco: sei minuti sparati a ritmo altissimo, tra una batteria incisiva e riff epici, attraversando assoli epilettici e un’originale struttura progressive lanciata verso il terzo millennio.
Si può dire che uno dei punti meritevoli dei Muse sia una costante ricerca di nuove sonorità, che resiste alla tentazione di cedere alle lusinghe commerciale e di ripetere gli stessi dischi per una decina d’anni (guardare alla voce Placebo).
Un aspetto che fa onore alla band inglese, capace di andare continuamente controcorrente stupendo e talvolta deludendo i propri fan di vecchia data, proprio come quei Radiohead a cui la band di Teignmouth deve più di una suggestione sonora. Evitando scomodi paragoni, resta la sperenza che qualcuno riesca a “sedare” parzialmente Bellamy e la sua ugola per il prossimo disco. In fondo, sia Thom Yorke che Peter Hammill (Van Der Graaf Generator, tanto per restare in vena di prog), pur vantando due voci sublimi e entusiasmanti, sapevano e sanno tuttora, quando è il momento farsi da parte e lasciare spazio ai propri compagni.
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