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R Recensione

9/10

The Dears

No Cities Left

Canada, 2003. Mentre stanno partendo i baccanali della ‘canadian invasion’, a Montreal c’è qualcuno che fa l’inglese. Lui si chiama Murray A. Lightburn, ha una voce talmente spiccicata a quella di Damon Albarn da sembrarne un clone, ma i critici lo battezzano subito come il ‘Morrissey nero’. Oh, certo, ci sono anche gli altri tre membri con cui ha formato nel 1995 i Dears, tra cui quella Natalia Yanchak (tastiere, seconda voce) che diventerà sua moglie. Ma l’anima della band è lui, e ci tiene a sottolinearlo. A vergare il libretto del secondo disco dei Dears, “No Cities Left”, c’è una scritta che non lascia scampo: «Performed by The Dears. Written and Directed by Murray A. Lightburn». Punto.

A Lightburn degli Arcade Fire non gliene può fregar di meno, né dei riff schizoidi e cubisti immersi in melodie sghembe che saranno l’ingrediente più genuino dell’indie rock canadese. Il titolo dell’Ep che precede, nel 2001, l’uscita di “No Cities Left” è emblematico di come Lightburn esiga che suoni la sua musica: “Orchestral Pop Noir Romantique”. Dici poco, soprattutto nel 2003. Non è un caso se questo disco, che incarna fin nel midollo quel quartetto di aggettivi, sembri appartenere ad altri decenni, o forse a nessuno, entrando perciò nel novero di quelle opere fuori dal tempo che più facilmente raggiungono lo status di classici.

Intriso di una sinfonicità sfatta e decadente, persino sfiancante nelle sue volute di violini e ottoni, di trombe che cantano crepuscoli stramazzati, melodie da poeti maledetti che campano a fare gli esteti blasé, lamenti di autocommiserazione vicini all’apocalissi («It won’t ever be what we want» è il mantra che scandisce il primo pezzo del disco), code strazianti zeppe di una rabbia rappresa, intermezzi giocosi e ammicchi sensuali da casanova dei poveri, e una cascata di pop esistenzialista inglese, dagli Smiths ai Tindersticks, da certi Blur convalescenti (quelli di “To The End”, per dire) ai Pulp dell’«empire à la fin de la décadence», dai Divine Comedy a quel tocco di dongiovanissimo à la Gainsbourg che non guasta, il capolavoro dei Dears sceglie la strada dell’eleganza e della pulizia sonora nel decennio della bassa fedeltà e dei cori avvinazzati. Scelta perdente. Ma si sa: a questa gente la sconfitta piace da matti.

Da 65 minuti sempre tesi, malati, emotivamente al limite, se ne può (se ne deve) uscire spossati. Non rimangono città, e non rimane pressoché nulla. È pura catastrofe quella di “Who Are You, Defenders Of The Universe?”, con Lightburn che canta su tonalità bassissime e cori dark un inno d’abbandono disperato: contando che siamo appena al secondo pezzo, dopo l’estenuante cavalcata orchestrale di “We Can Have It”, ci si può già ritenere belli che al tappeto. Per fortuna il disco riserva inattese pieghe di raffinatissimo british-pop cameristico, che alleggeriscono il tono con divagazioni tra Smiths e Belle And Sebastian (“Don’t Lose The Faith”) e spettacolari scampagnate fatte di soli di melodica e rinforzi di ottoni (tromba, trombone, corno: ce n’è per tutti): la title-track, con un Lightburn crooner più che mai, è a dir poco gloriosa. Il controcanto ironico, come insegnano i modelli in bombetta che Lightburn ha in mente, è parte integrante della recita.

Che i Dears abbiano raggiunto qui il loro apice, neppure sfiorato dai successivi “Gang Of Losers” e “Missiles”, lo dicono soprattutto i pezzi più complessi, che si sdipanano come suite cangianti e spericolate, con un occhio a Jarvis Cocker e uno a Neil Hannon: il sax e l’organo che fanno da sensuale tappeto alla malandrina (e fenomenale) “The Second Part” sono un incanto sophisti-pop, mentre i sei minuti di “22: The Death Of Romance”, nel dialogo tra un guascone Lightburn mai così Damon Albarn e un’ingessata (e stonata) Yanchak, propongono una spettacolare e nerissima ballad della disillusione piena di struggimento teatrale che sfocia in una coda drammatizzata dalle trombe.

Non fanno paura, allora, i mostri dal minutaggio debordante: anzi. La magniloquente tragicità di “Postcard From Purgatory” si sfa in un finale free di puro e geniale delirio, tra un flauto calypso e chitarre durissime, e gioca i suoi otto minuti al completo. Addirittura gotico l’attacco di “Expect The Worst/’Cos She’s A Tourist” (baroque-pop tinteggiato di medievale come solo certo metal, vd. ai 1’10’’), mentre il finale rilassa su ipnotici toni jazzy (presente l’ultima segmento di “This Is Hardcore”?), con Lightburn che canta sonnolento le sofferenze d’amore di un tombeur de femme infatuatosi di una turista, immerso in una vasca di sassofoni e trombe balsamiche. Un minuto in meno dei sette e mezzo totali sarebbe stato una scelleratezza. “Pinned Together, Falling Apart” (6’35’’) apre noise puro, continua come elegia noir (i Portishead di “To Kill A Dead Man” sono citati quasi alla lettera) e finisce disperato-sinfonico, con Lightburn che caccia urli lancinanti su un assolo hard-rock. Impossibile da immaginare, lo so.

Serve altro? Una cola? Una cedrata? Abbiamo anche quella: “Warm And Sunny Days” è il libertino spossato dopo il piacere, che si distende su una chaise-longue in veranda e sorseggia il suo nulla con una placidità disperata («My God the pressure in on, and I still don’t have a son, my body’s sore from sleeping on the couch»), mentre archi vaporosi, chitarre svenate e scambi di clavinet e flauti pitturano scorci settecenteschi fatui, stile Watteau, a cancellare l’angoscia con tocchi di artefatto ristoro. E “Never Destroy Us”, di nuovo caricatura lounge, è la gazzosa finale. Ah, attenti: ha una coda di trenta secondi punk-core (!).

In un decennio come quello 00 tutto sommato scomposto ed eterogeneo, in cui si può trovare di tutto, magari dovendo cercare quanto è stato meno in voga in sottoboschi comunque vivissimi, un disco come “No Cities Left”, anche a qualche anno di distanza, continua a suonare implacabilmente fuori contesto. Scollegato con tutto ciò che stava succedendo attorno. Volutamente superbo e altezzoso, sdegnoso come un dandy a cui è rimasto solo il proprio orgoglio. Classico, ma imprevedibile. Tremendamente ambizioso. L’apice di una band che si è poi perduta nei meandri della propria stessa megalomania, tanto da rimanere, nel 2008, ridotta all’osso delle coppia Lightburn-Yanchak, un po’ triste nella sua cocciuta pretesa di autosufficienza.

No Cities Left” è forse stato, più che l’inizio di un nuovo revival, il tardivo (tardivissimo) canto del cigno di una magnificata tradizione di pop britannico, esaltata qui in un pastiche unico per estro e originalità. Dal Canada meno canadese che si sia mai sentito. Una di quelle congiunzioni astrali che non godersi è peccato.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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loson alle 15:11 del 28 settembre 2010 ha scritto:

Promette davvero bene, questo "No Cities Left". E' troppo presto per dare voti o anche solo tentare un'analisi, ma posso dire con ragionevole certezza d'aver trovato qualcosa su cui "meditare" - e godere - parecchio (la piega soft-jazz che prende "Expect The Worst", molto pinkfloydiana nella sua eterea rilassatezza, mi ha già conquistato). Grazie, Targ, per la splendida segnalazione (comprensiva di recensione impeccabile).

hiperwlt alle 21:27 del primo ottobre 2010 ha scritto:

quando target fa fioccare un quattro stellette e mezzo l'acquisto è obbligato (già provveduto per altro!).

mi piace, almeno a parole, questo connubio di sensibilità musicali (orchestral pop noir romantique). recensione imponente, fitta di rimandi, dettagliatissima: gran lavoro!

target, autore, alle 9:38 del 2 ottobre 2010 ha scritto:

Grazie a Los e Mauro (spero che non ti debba pentire dell'acquisto...)! Una particolarità: il disco è uscito con tre copertine diverse. Oltre a questa, una à la Ride che si può vedere nei video sopra e una arancione-tramonto. Ho scelto la copertina con cui il disco si trova qui da noi. Spesso, peraltro, lo si trova in un'edizione che comprende anche l'ep "Protest" (notevole, lì, "Summer of protest", scritta sulla scia del G8 genovese).