R Recensione

8/10

Basia Bulat

Oh My Darling

Se, come sosteneva Bazin, quello dello spettatore è davvero il mestiere più bello del mondo, beh, allora mi permetto di dire che ascoltare canzoni certe volte, è come andare in pensione a ventisette anni con il massimo dei contributi già versati e un’intera vita davanti per sperperare il malloppo alla faccia di D’Alema e Padoa Schioppa.

E quando tra le mani ti capita un piccolo monile di Art Decò musicale, teneramente cesellato da giovani mani graziose e pazienti, come Oh my Darling (Rough Trade, 2007) di Basia Bulat, puoi stare sicuro che, fosse anche l’ultima, questa volta sarà una di quelle. Vabbè non aspettatevi un capolavoro o un disco lambiccatamente epocale da questa ragazzina poco più che ventenne, nativa di London, Ontario, che nelle foto pubblicitarie fa capolino un po’ritrosa vestita come un personaggio di Virginia Woolf, il viso incorniciato da capelli biondi sottili come fili d’oro, giunta al debutto sulla lunga distanza dopo alcuni EP autoprodotti.

Anzi, sapete che vi dico? Non aspettatevi un bel niente. Chiudete solo gli occhi, origliate silenziosamente e sfogliate col pensiero il libro delle immagini che si schiude d’innanzi alla vostra mente. Una sorta di infantile, estatica regressione che non ha certo impedito a chi scrive di vagheggiare ruote panoramiche e mele caramellate brillanti alla luce autunnale di una fiera di paese;mi ha permesso di accostare educatamente porte a rete che si aprono sul patio di una casa col tetto spiovente e la veranda sul retro, di sussurrare inconfessabili segreti adolescenziali carpiti da labbra femminili come frutti di stagione dai rami di un albero.

D’altronde piuttosto che innestare questa “Rosa Alba” nello splendido vivaio in cui sono cresciuti i rigogliosi connazionali Great Lake Swimmers, Malajube, Wolf Parade o, perchè no, persino gli Arcade Fire, viene spontaneo riporla nel bouquet letterario di autrici come Joyce Carol Oates, Jeannette Winterson o Emily Dickinson.

La stessa Bulat dice di se senz’ombra di presunzione: “(...) sono stata influenzata più dalle letture che dagli ascolti, anche se credo sia presto per valutare con esattezza chi o cosa ha avuto un impatto sul mio modo di scrivere e di pensare”. Lei che normalmente si riferisce alle proprie composizioni chiamandole semplicemente “melodramatic popular songs”, che afferma di sentirsi comunque parte di una famiglia più che di una band e per questo si fa accompagnare da un drappello di amici musicisti, ha infine scelto di entrare in studio, confidando nella saggezza di Howard Bilerman, per intagliare il retaggio di note della tradizione al conio di idee, istantanee e complicità annidate nell’intimo del suo passato prossimo.

Sospinta dai sussulti dell’ukulele e ritmata da un grazioso, slegato battimani, Before i knew è l’interludio che precede il lieve soffio di sentimenti appena nati in una confessione vespertina. I was a daughter fa orbitare trovate madrigaleggianti e accenti da mezzo soprano intorno ad un circuito post-ponk ossificato e zoppicante cedendo a poco a poco il passo a Litttle Waltz, deliziosa miniatura tardo-ottocentesca alla Louise May Alcott, imbrigliata da due scarni vibranti accordi di chitarra e impreziosita da un tenue contrappunto di violino. December è un pop/country più manierato e classicheggiante che nel ritornello ricorda un po’ il Neil Young alla saccarina di Comes a time.

Un po’ Victoria Williams e un po’ Alison Krauss, Basia, arrossendo candidamente, svela così il versante più sibillinamente orecchiabile della sua cristallina vocalità. Snakes and ladders increspa di controtempi avventurosi un tappetto Vittoriano di soli piano e violini. Oh my darling è un minuscolo sonetto campestre in cui Basia gorgheggia come una Cat Power travestita da Emmylou Harris ed esce di scena accompagnata da un delicato minuetto per chitarra ed armonica a bocca. E se Little One eleva uno struggente lamento iper-tradizonale appena scheggiato da una ritmica indie, Why it can’be mine disegna un country sfumato di jazz e flamenco che gronda di romanticismo epistolare alla Charlotte Bronte.

The Pilgrim Wine(sicuramente il brano più trascinante dell’intero album) è una specie di crescendo in ¾ semi-improvvisato, un circolo danzante che sa di vendemmia e di piccoli baci indifesi come raspi d’uva calpestati in tini di legno, La da da, una serenata mattiniera per tamburi, marimbas e violino di un nitore melodico abbagliante e bucolico. Dopo la festa, Birds of paradise distilla umori blues in una elegante melodia per sola voce e chitarra mentre A secret rinserra lo scrigno dei segreti di famiglia (la cui chiave era appesa al portico in legno di Before i knew) con un lieve commiato pronunciato al tremolio dell’ukulele.

E infine, ecco a voi una giovane promessa che potrebbe ritagliarsi una nicchia di rilievo nel panorama della canzone d’autore anglo-americana, un posto d’onore fra i balcanismi peripatetici di Beirut e i barocchismi torrenziali di Sufjan Stevens. Sperando che, nel frattempo, a nessuno venga in mente di fare di lei la nuova Alanis Morissette. Incrociamo le dita.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 5 voti.

C Commenti

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Nadine Otto alle 13:01 del 22 maggio 2007 ha scritto:

Signorina Woolf

La freschezza di questa recensione mi è piaciuta molto! L'album sembra davvero interessante.