Shapes and Sizes
Split Lips, Winning Hips, A Shiner
I gruppi citati più frequentemente per descriverne il sound sono Fiery Furnaces, Volcano!, Architecture in Helsinki e Deerhoof. Nei loro pezzi sono rintracciabili gocce di psichedelia, articolati pattern ritmici ai confini del math rock, asperità post core, innnesti noise e lusinghe pop. Se dovessimo cercare dei possibili parenti tra i conterranei Canadesi ci orienteremmo facilmente verso i Broken Social Scene, anche se la tentazione di pensare ai Frog Eyes, a causa di un'attitudine mentale vagamente schizoide sarebbe comunque forte.
Mettendo insieme questi indizi dovrebbe essere facile capire che questi Shapes & Sizes possono essere inquadrati, senza grande sforzo, nel non genere che va sotto il nome di Avant Pop. Un filone che si sta rivelando, a detta di chi scrive, una presenza vitale a fronte di schiere stanche e spossate di militanti indie rock: perché a fronte di un susseguirsi di uscite sempre più sclerotiche, omologate, clonate, dozzinali, di band imberbi che si scimmiottano pedissequamente a vicenda, di eterni nostalgici che rispolverano con cura copioni già scritti, un approccio come questo costituisce una ventata d'ossigeno : esaurite tutte le possibili combinazioni tra generi, battute senza sosta e contro ogni legge fisica tutte le forme di accoppiamento meticcio tra sonorità antitetiche, l'unica strada resta, forse, quella di prendere la forma canzone e scardinarla. Defintivamente.
Avanguardia pop, esplorazione ed esplosione delle strutture esistenti, approccio alla materia compositiva che è contemporaneamente paranoico e schizofrenico: questo è quello che fanno gli Shapes And Sizes. La sostanza pop deve passare attraverso una fitta rete di maglie e un tortuoso sentiero ad ostacoli, prima di arrivare a destinazione, distillata in minuscole gocce iridescenti.
E se nel precedente, omonimo debutto, la band canadese aveva finito col riversare troppe idee nel calderone, appesantendo eccessivamente di spunti e dettagli il disco, questa volta sembra aver imparato appieno la lezione: fin da quell'Alone/Alive deputata ad aprire le danze, che decolla festosa e caotica, cavalcando brevemente un turbine percussivo e proseguendo sghemba attraverso slalom di basso-batteria che atterra soffice su un etereo fiorire di voci, riprende la rincorsa e riparte, la chitarra in primo piano a ricamare tessiture da dopo-rock.
E' un microcosmo popolato di colpi di scena e svolte sonore inattese, in cui la ricerca non è mai fine a sé stessa e i compartimenti non sono mai stagni, che richiede l'attenzione costante dell'ascoltatore e non accetta di andare in background: i trucchi escogitati dal quartetto per tenere alta l'attenzione sono innumerevoli: groove che affiorano all'improvviso sotto intrecci indie rock saturi di chitarre e di feedback (Head Movin'), trascinati quadretti indie rock alla maniera degli Evens di Ian MacKaye (Teller/seller), sghangherate eruzioni soniche tra Sleater Kinney e Frank Zappa, ubriacature Pavementiane (Can't Stop That (Sinking) Feeling) e pop spastici (The Long Indifference). L'atmosfera cambia di continuo e si fa di volta in volta depressa, circense, bucolica, lugubre, depressa.
Gli spunti sono innumerevoli, la spinta alla destrutturazione mai sterile, la materia grigia e la pancia convivono amabilmente: non siamo ancora al capolavoro, ma alla prossima questi cubisti sonori canadesi potrebbero regalarci qualcosa di davvero grande.
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