R.e.m.
Up
Dopo l’abbandono del batterista Bill Berry, i restanti membri dei R.e.m. si trovarono di fronte a uno snodo cruciale della loro carriera, simile a quello del decennio prima, quando firmarono per una major.
Da un lato decisero di non rimpiazzare ufficialmente il monocigliato batterista ( affidandosi a turnisti e a drum-machine), dall’altro decisero di riverniciare il proprio sound introducendo soffusi elementi elettronici e maestosi acompagnamenti orchestrali, senza ovviamente inficiare l’inconfondibile struttura remiana. “Up” fu dunque un album di transizione, nella migliore accezione del termine, tra il capolavoro “New Adventures In Hi-Fi” e il percorso creativo avvenuto nel nuovo secolo, in cui, pur tra diverse incertezze, il gruppo di Michael Stipe rimane uno dei nomi mainstream più affidabili.
I pezzi più marcati dall’elettronica a dire il vero non lasciano il segno più di tanto: “ Airport Man” e “Hope” hanno cadenze narcolettiche e stufano ben presto, “Lotus” ha un tiro funky notevole ma la sua lunga durata la sfibra. Anche qualche ballata, tradizionale marchio di fabbrica del gruppo, non ha l’efficacia di un tempo ( si pensi a “Why Not Smile” e “Parakeet”) e si avvitano su se stesse.
Però i R.e.m. sono dei fuoriclasse del rock, hanno quel quid che rende una giocata di Messi diversa da quelle di Adriano e una classe intrinsecamente sopraffina rispetto ai muscolari delle 7 note. Ecco quindi l’avvolgente incedere di “At My Most Beautiful”, inizio dell’ossessione di Mike Mills per i Beach Boys, con quei coretti ruffiani e leziosi ma epidermicamente irresisibili e una linea di pianoforte sublime.
E poi le ustioni acustiche di “The Apologist”, che aggiornano le ombrose atmosfere di “Automatic For The People”, gli esotismi chitarristici di Peter Buck alla Tuatara di “You’re In The Air”, le impennate anfetaminiche di “Walk Unafraid” e infine la magniloquenza ben dosata della conclusiva “Falls To Climb”. Tutti dei classici, come il singolo “Daysleeper”, melodia che si infiamma in un refrain sfolgorante, e un testo in cui Stipe risfodera il consueto cinismo, dipingendo un lucido ( e all’ epoca innovativo) affresco sui forzati della New economy in un mondo sempre più disumanizzato e robotico.
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