R Recensione

7,5/10

Eraldo Bernocchi / Prakash Sontakke

Invisible Strings

L’incontro fra elettronica e strumenti tradizionali è sempre un’incognita, la cui soluzione positiva dipende dalla capacità di rispettare equilibri e dinamiche molto delicati. Far dialogare la chitarra lap steel (quella in stile hawaiano resa celebre da Santo & Johnny, per intenderci) con ritmi e fondali generati dalle macchine è un esperimento forse inedito, che vede protagonisti il poliedrico architetto sonoro Eraldo Bernocchi (diverse esperienze in carriera fra jazz rock ed elettronica, con Bill Laswell, Nils Petter Molvaer e Harold Budd, artefice dei pionieri industrial Sigillum S, oggi in fase di reviviscenza, e cofondatore della RareNoise) in questa occasione impegnato anche alla chitarra baritono, e l’esperto multistrumentista e compositore Indiano Prakash Sontakke, un musicista che spazia dalla musica classica industana alla fusion e che, fra le proprie peculiarità, ha proprio quella di inserire in questi contesti il mellifluo canto della chitarra hawaiana. 

Risultato? Nove quadri sonori caratterizzati da un clima rilassato ed impostati su tempi medio lenti, nei quali gli strumenti a corde dei due titolari sono assoluti protagonisti di dialoghi appassionanti, tesi o discorsivi, fluenti su un tappeto di basi elettroniche non invadenti ma efficaci nel circoscrivere il clima sonoro complessivo. Accade così che un incalzante tema della chitarra di Sontakke conduca le cadenze dell’avvolgente dub world iniziale di “The Last Emperor Walked Alone”, che le corde alte e gravi disegnino insieme, in “Will You Stay”, la mappa di un viaggio da ovest ad est, o spazino nel cosmo “From Star To Star” fra lampi di luce e delicati stop and go. Oppure che le trame incrociate degli strumenti costruiscano fra echi e risonanze la soundtrack per una “Bangalore Electric”. O che le spirali electro di “Purple Yellow” si avvolgano intorno al canto della lap steel. Uno struggente e futuristico blues, “Walking Backwards Again” costruito con pochi essenziali elementi (il riff della chitarra, un battito ritmico e un discreto sfondo ambient), e la rarefatta “The Unsaid”, ideale appendice per immaginari titoli di coda, concludono nel modo migliore “Invisibile Strings”. 

L’opera, maturata nell’arco di un anno e mezzo - si presume nel medesimo clima di assorta tranquillità che restituisce all’ascoltatore -, si colloca distante dall’evanescenza talvolta tipica di certa ambient, offrendo un messaggio ricco di significati e foriero di emozioni con la forza di una identità originale che usa la grazia, anziché la forza, per affermarsi.

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