Volcano Choir
Repave
A far notizia, tra le altre di questo mese, è la release di un disco a cui Justin Vernon ha preso parte. Repave - a nuovo, dalle fondamenta del proprio sé; ricostruire dal punto in cui crepe hanno intaccato certe stabilità. Stabilità, dopo una vita di nomadismo (sia dai gruppi a cui a preso parte, sia, come ricorderete, per certe scelte di vita inestricabili da conseguenze affettive), che Bon Iver pareva aver raggiunto dopo il trionfale riscontro ottenuto da "For Emma, Forever Ago" e da "Bon Iver, Bon Iver", ma che è stata minacciata dalle prospettive (a far clamore) di resa incondizionata dalla sua creatura più conosciuta - se ne sta parlando solo diffusamente, ben poca validità naturalmente, ma la dichiarazione (via Radio Triple J) cè stata.
Il disco è, rimarchiamolo, a nome Volcano Choir (Vernon, ad Esquire: <<It's just so clear to me that Volcano Choir is such a band, such a new thing that came from absolutely new songs>>): ossia Jon Mueller e il collettivo sperimentale Collections Of Colonies Of Bees - sette album allattivo, tutti più o meno in sordina (parziali riscontri di critica arriveranno con Birds, 2008) nel vecchio continente.
Al primo impatto, e a dispetto di quanto accaduto dal passaggio dai boschi del Wisconsin a quelli innevati della cover di Unmap, Vernon sembra aver apportato in Repave molti degli elementi maturati perfettamente in Bon Iver, Bon Iver: in primis, il vertere sulla dilatazione degli spazi ma entro confini delimitati, a cavallo tra prog minimalista, tra math emotivo e post rock più escapista. Sicché, permane entro il disco quel coinvolgimento avant e ambientale caro ai Bees, benché venga curvato in funzione di una gestalt pop sempre più compiuta.
Ancora: la componente ritmica (Mueller), qui, inizia ad avere un ruolo di primo piano (Acetate, "Almanac") nell'economia del sound, marchiando a volte con imponenza il flusso dei brani. In ultimo: l'evoluzione (o la normalizzazione) del falsetto corale, declinato ad una compostezza esecutiva probabilmente nuova (non migliore, non per forza peggiore) nel percorso artistico di Bon Iver.
Il filo che lega ogni episodio è un folk rock dal respiro intimamente rurale, ma plasmato e decostruito da un songwriting che tende all'universale, e quindi all'esaltazione delle tinte emotive pure. È un suono, quello di Repave, che gioca (ancora: eccola la continuità) tutto su ambivalenze (Grizzly Bear) e soluzioni dicotomiche: perfezionismo/estro creativo, astrattezza/esasperazione emotiva ("Comrade"), dilatazione/melodia e armonia. Abbiamo così aperture epiche, su marce dalla cromatura chitarristica (Tiderays); strutture iterate (Acetate), scosse da riff e pattern ritmici ripetuti e possenti (spettacolari, in coda al disco, sul micro circuito synth di Almanac), in cui le composizioni mostrano sempre nuove sfumature attraverso continui ricami e abbellimenti.
Ne escono brani di spessore (Acetate, "Tiderays", Comrade, Almanac"), per comunicatività emotiva superiori a quelli di Unmap, specie nella prima parte - a dispetto di una seconda alternata da alcune punte di eccellenza (lespressività dell'interpretazione in Alaskans) e momenti di stanca (la pur elegante struttura folk in loop, con accenno dirtyprojectiano, della stessa Alaskans iterata invero troppo; la misticità di sperimentalismo spoglio e soul di Keel), ivi inficiate da quella ambizione formale propria dellesordio.
Insomma, la strada intrapresa dai Volcano Choir sembra la più ideale: ossia quella di una compattezza ancora maggiore (il raggiungimento della forma canzone), a scapito (ma non del tutto) di certo rigore (frammentario, avant, avanguardistico: i riferimenti principali, come Gazzola scriveva su "Unmap", sono rappresentati da Rhys Chatman e Gleen Branca) formale e stilistico estremo. In termini di longevità del progetto, potrà fare solo bene.
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