R Recensione

7/10

Black Lips

200 Million Thousand

Ancora queste quattro teste di cazzo. Che dio li benedica. Se non esistessero bisognerebbe inventarli. È grazie a gente come loro se la musica, al giorno d’oggi, si trova in condizioni gravi ma non serie. Anche Lester Bangs sarebbe d’accordo e se mai dovesse rientrare in casa, dopo esserne fuggito in mutande, trovando le travi a penzoloni masticate da un incendio, e salvare un solo disco fra quelli ascoltati negli ultimi dieci anni, brancicherebbe in fretta e furia uno dei loro.

Una band sporca e malata come ce ne sono rimaste poche in giro (che non siano confezionate a tavolino scorrendo la giostra dei social networks), un cocktail rivoltante di bourbon, tequila, birra verde, lsd, sputi, rutti, piscio, sperma ed ogni più laida emanazione dell’animo umano scorra nei vasi comunicanti del nostro corpo. Una band di predestinati, non a caso a tenerli a battesimo, neanche ventenni, fu la Bomp Records, quella dei coniugi Shaw e del suono più selvatico, viscerale, scoppiato, ardente d’America, di Iggy Stooge, di Bators, dei Weirdos, dei Germs e dei Brian Jonestown Massacre, che nel 2003 pubblicò il loro debutto omonimo.

Una band che ha perso il suo primo chitarrista ancor prima di cominciare (Ben Eberbaugh, morto guidando contromano ubriaco fradicio nel 2002) ma ha continuato a suonare ovunque, instancabile, giorno dopo giorno, anno dopo anno (nel 2007 il New York Times li ha incoronati “band che si fa più il culo dal vivo”, per dirla ovviamente con parole mie, che non abbiamo tempo da perdere in citazioni), portando in giro il loro lurido freak-show a base di atti contro natura, invasioni di palco, catarsi etiliche collettive e naturalmente pere di musica sudata, rancida ed incandescente che gettano i loro fan in adorante astinenza fino al prossimo giro, perché anche il loro amico avrebbe voluto essere ricordato così.

Ora sono passati sei anni, sono cresciuti e hanno imparato a suonare quel tanto che non guasta. Quella terrificante smania post-puberale è diventata uno stile di vita, la spudorata irrazionalità, lucida follia. 200 Million Thousand è probabilmente il disco di transizione dai fauve giovanili ad una perversa maturità che, a giudicare dalle premesse, s’annuncia ricca di sorprese e di sfumature nonostante continui a scorrere nell’alveo di quel flower-punk, di quel garage-punk necrofilo e mattoide che è da sempre il loro marchio di fabbrica. La tavolozza dei generi e delle influenze si allarga a macchia d’olio per colare in rivoli solforici multicolori.

Come nel punkabilly sguaiato e infoiato dell’opener Take My Heart un mix andato a male di Cramps, Gun Club e Stones periodo “I’m a fleabit peanut monkey/ all my friends are junkies”, bissato verso metà da BBBJOT pow-wow assassino e voodoo afroide, un mazzolino di belladonna in ricordo dei cari estinti Lux e Jeffrey Lee; diversamente Drugs e Starting Over, soprattutto la seconda, ciancicano un garage beat allusivo da ballo scolastico in cui nostri rapiscono la reginetta e ne abusano fino al giorno del rilascio di Charles Manson; Let It Grow, viceversa, è un raga-noise da guardoni, fiutamutande e maniaci sessuali assortiti che fa il verso ai Velvet Underground, ancor più esplicitamente evocati nell’ispirata danza bacchica di Old Man.

E se il boogie percussivo e psichedelico di Short Fuse è un aperitivo fin troppo leggerino per i loro standard, I’ll Be With You è Phil Spector stordito dal Seconal e con la testa infilata nella morsa d’un tritacarne, poi con The Drop I Hold si tocca l’apice: un calice d’ametista per intingere tutto il loro nettare malevolo, il sample degli adepti di Jim Jones che si dicono pronti a darsi la morte per incontrare dio (cosa che faranno di lì a poco) lascia il posto ad una specie hip-hop tremens sudista, lercio, disperato e, quel che più conta, assolutamente inedito.

Una vetta affiancata soltanto da I Saw God, intro estratta da un filmato che documenta la somministrazione di Lsd in via sperimentale a bambini di nove anni e poi slo-fuzz alla deriva scandito da un comizio in stile talkin’ (con un bel rutto che rende ancora più convincenti le sue argomentazioni) pezzi di nastro mandati al contrario, imprecazioni bippate, fino agli osanna della rivelazione più acida e blasfema.

Un finale da brividi e, a modo loro, quasi commovente.

V Voti

Voto degli utenti: 6,1/10 in media su 7 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
krikka 7/10
REBBY 5/10

C Commenti

Ci sono 5 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Ivor the engine driver (ha votato 6 questo disco) alle 10:15 del 27 febbraio 2009 ha scritto:

abbastanza d'accordo simone sui Black Lips, quattro gran cazzoni che si divertono. Ma da Good Bad la china intrapresa è discendente. Nel senso che la scelta di eliminare la produzione ultra lo fi del periodo precedente li rendeva "particolari" e potevano spiccare fra la miriade di band garage odierne. Tolta quella, rimangono i testi delirio, l'attitudine cazzona e poco altro. Un po' poco per non perdersi nel mare di adoratori di Nuggets (perchè oramai il loro suono è molto + filologicamente vintage di prima). Peccato perchè Let It Bloom è tuttora una figata di disco!

Ivor the engine driver (ha votato 6 questo disco) alle 10:17 del 27 febbraio 2009 ha scritto:

vabbe è mattina presto, scusassero la consecutio totalmente personale qui sopra.

SamJack alle 15:18 del 27 febbraio 2009 ha scritto:

...quindi periodo monkey man.....

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 18:46 del 9 marzo 2009 ha scritto:

Che palle però ... suonano sempre lo stesso disco!

Ivor the engine driver (ha votato 6 questo disco) alle 18:45 del 22 marzo 2009 ha scritto:

ma lo sai Simone che l'ho rivalutato? è meglio del precedente di sicuro, alzo il voto